lunedì 29 ottobre 2007

Capitolo III - Rex et sacerdos

III. In duci Demetrii castris, in Langobardiā*
La lunga notte moriva nella grande pianura, le poche tende disposte attorno ai resti di un falò spuntavano appena dalla nebbia lattiginosa che non era ancora salita. Cinque cavalcature erano legate ad una sbarra e sbuffavano vapore dalle nari. Nella sua tenda il dux Demetrius Vonherus vegliava già da quasi un’ora, mentre nelle tende vicine ancora tutti dormivano. In un angolo erano appoggiati una lunga lancia ed uno scudo ricoperto di pelli. Un rotolo di pergamena con il sigillo violato era semidisteso su una tavola di legno, scarabocchiato in un latino imbastardito.
Il dux si alzò dal suo sgabello, il grosso cane levò lo sguardo da terra, gettò un’occhiata distratta al padrone e tornò a dormire; l’uomo uscì dalla tenda, dirigendosi verso il quartiere dei servi, per far riaccendere il fuoco e preparare il desco. Si trovava nello spiazzo principale dell’accampamento, quando dalla nebbia emerse la figura alta e magra di un vegliardo. Demetrius scorse un cerchio di capelli bianchi intorno alla testa, quando il vecchio si scoprì, togliendo il cappuccio della sua caracalla. Nel silenzio, rotto solo dal respiro ritmico dei cavalli, il vecchio fece un cenno al rozzo soldato, indicandogli di sedersi. Poi aprì la bocca, salutandolo. Il barbaro non capiva il greco in cui parlava l’uomo che gli si trovava innanzi, e impugnò la grossa spada a due tagli che portava appesa alla cintola, brandendola minacciosamente verso di lui. L’altro, avendo intuito che il suo interlocutore non lo comprendeva, ripeté il saluto in latino, questa volta compreso.
Il dux Demetrius gli rispose, nonostante il suo latino non fosse paragonabile a quello del vegliardo.
«Buongiorno a te. Chi cerchi?»
«Stavo cercando voi, signore. Vorrei proporvi un’impresa illustre, che vi porterà grande fama presso il vostro popolo, un’impresa in terre lontane che nessun Longobardo ha mai visitato.»
«Io non ti capisco, Romano. Non ti conosco, e tu vieni a casa mia proponendomi di lasciare la mia terra per località ignote.»
Fece cenno ad un servo che si stava avvicinando, mandandolo a prendere la pergamena che si trovava nel suo studio. Quando fu tornato, continuò.
«Vedi questo foglio? Il mio re Bugarico mi ordina di penetrare nel regno dei Gepidi con la mia fara, per raggiungere la loro capitale entro primavera. Non posso seguirti.»
«Voi conoscete la potenza dell’impero romano bizantino, e sapete che non solo vi sovrasta enormemente, ma che anche ostacola il vostro cammino verso la totale conquista della verde Italia. Seguitemi e acquisirete una forza tale da non essere più secondi a nessuno in Europa.»
Gli occhi cerulei del capo barbaro brillavano di avidità.
«Cosa mi chiedi, dunque?»
Sorridendo, giacché si era avveduto che il suo rozzo interlocutore stava cadendo nella rete che aveva teso, il vecchio rispose:
«Venite con me oltre i confini dell’Oriente, ed io vi ricompenserò. È una missione d’importanza fondamentale che il Patriarca Ecumenico di Bisanzio vi vuole affidare.»
«Chi è questo Ecumenico? Non lo conosco.»
«Ora lo conoscete.»
Demetrius non sembrava capire.
«Sono io!», sbottò innervosito il religioso.
Il Longobardo era sul punto di accettare, ma presentò un’ultima obiezione.
«E chi amministrerà la mia fara?»
«So che il più promettente dei vostri nipoti è il giovane Liutprando. Scegliete lui.»
* Nell’accampamento del dux Demetrius, in Langobardia

venerdì 19 ottobre 2007

Capitolo II - Rex et sacerdos

II. Novae Magnae, in Presbyteri Johannis regno*
Un grande concorso di folla si era riversato lungo la strada che conduceva alla città, per festeggiare il periodico arrivo della corte del Presbiter Johannes. La processione era iniziata all’alba, aperta da centoquarantaquattro grandi croci tempestate di pietre preziose, seguite dalle insegne del Presbiter, da un migliaio di reliquiari argentei, dagli appartenenti alle confraternite delle città di tutta la Transoxania, dalle forze scelte dell’esercito, guidate dallo Stratego Immanuel Calais, e da mille altre meraviglie che gli occhi potevano vedere ma le parole non possono descrivere. Dopo ore di processione, dall’ultima curva della strada, che tortuosa attraversava scoscesi monti per giungere all’altopiano su cui sorgeva la città, si rivelò alla vista un grande baldacchino di seta impreziosito da sfavillanti gemme multicolori.
Scortato dalla guardia d’onore e accompagnato da dodici diaconi, il Presbiter Johannes incedeva verso la città, vestito di un lungo manto bianco che ne lasciava scoperto il capo, sul quale poggiava l’insegna del potere spirituale, secondo la foggia della Chiesa orientale. In mano aveva la croce, ripresa direttamente dall’insegna del Papa di Roma.
Erano passati vent’anni da quando aveva assunto il potere, ma il volto del re-sacerdote brillava ancora di giovanile ardimento. Entrava ora a Nova Magna, una delle capitali del suo regno, quella più isolata dalle vie commerciali che erano il motore dell’economia dei suoi domini, ma quella che attirava più pellegrini da tutta la Transoxania e anche dall’India.
Da una terrazza naturale dell’altopiano, incombeva la gran mole classicheggiante della chiesa madre di Transoxania, il famosissimo santuario di Maria Nostra Diva. Il timpano, ornato da un fregio di marmi multicolori, era esposto a sud ed era ben visibile da tutta la città. La gran massa di popolo era accalcata ai lati della via che, entrata a Nova Magna, saliva alla grande chiesa.
Quando, dopo il mezzogiorno, tutta la processione e, dietro di essa, il popolo furono giunti alla sommità dell’altopiano, il Presbiter Johannes, attorniato dai suoi diaconi, celebrò la Messa, che fu seguita da un grande banchetto.
Tra una portata e l’altra, che si succedevano ormai da ore, Immanuel Calais si avvicinava al suo signore, per aggiornarlo sui fatti che erano avvenuti in città nell’ultimo anno. Il rumore della festa si diffondeva in tutta la città, e le finestre del palazzo dominico, con la loro luce, rischiaravano la notte circostante. La città era buia: tutti gli abitanti di elevata condizione sociale erano invitati ai festeggiamenti, il popolo minuto dormiva come tutte le altre notti. Il santuario di Maria Nostra Diva era lievemente illuminato dall’interno, e un diffuso chiarore rifletteva sulle colonne di marmo bianco. Dietro il pronao era posto un braciere, dentro il quale ardeva un fuoco, piccolo ma sano. Dal fondo della navata osservava la scena, da una nicchia chiuse da colonne d’acquamarina, una statua non molto grande dai riflessi bluastri. Rappresentava una figura femminile dall’indicibile grazia. Se la perfezione fisica era già stata raggiunta dalle opere degli scultori della grecità, la perfezione morale che traspariva dalla statua non era mai stata raggiunta prima. I Greci utilizzavano la perfezione fisica per rappresentare quella morale; e il portamento eretto, le proporzioni delicate, la vita alta e il bel volto incorniciato da lunghi capelli sarebbero bastati per un Policleto. Quella statua possedeva una forza trascendente i cinque sensi della percezione, ma percepita da tutti gli osservatori: quella statua rifulgeva di grazia. In quel santuario assolveva alla funzione di simulacro mariano e tutti i pellegrini si chiedevano chi avesse mai realizzato un sì mirabile artefatto.
Il custode del Tempio e del Fuoco, a quella domanda, rispondeva sempre con le medesime parole: «Anni fa, venne da occidente un sacerdote che fondò su queste terre un grande regno e che tuttora è il vostro signore terreno. Insieme a lui arrivò su questo altopiano un soldato, che aveva visto le battaglie più sanguinose di quell’epoca e aveva sotto di sé migliaia di soldati. Era rimasto solo, e si fermò su questo altopiano fondando la città e costruendo questo santuario per venerare Maria Nostra Diva, la cui statua che vediamo in questo tempio aveva personalmente trasportato per tutto il suo viaggio. La donò al tempio e di lui non si seppe più nulla. Probabilmente è stato il predecessore dello stratego Immanuel Calais.»
Il custode del tempio aveva appena finito di spiegare queste cose a due giovani pellegrini indiani quando entrò nel santuario uno dei soldati del Presbiter Johannes, che lo chiamò e gli riferì:
«Il Reverendo Presbiter Johannes vi fa chiamare al suo palazzo, fratello Fabio.»
Vestito di un ruvido saio, Fabio si presentò al palazzo di marmo del re–sacerdote quando già gli ospiti avevano finito di andarsene. Nel grande atrio, vestito con una lunga cotta di maglia rinforzata sul torace e sulle spalle con scaglie di metallo, lo stava aspettando Immanuel Calais, stratego della Transoxania, che era il territorio su cui regnava il Presbiter. Appena lo vide, Calais s’irrigidì con deferenza, nonostante l’aspetto dell’ospite fosse alquanto malandato.
«Fratello Fabio, il Presbiter la sta aspettando di là nel suo studio privato. Mi posso permettere di ricordarLe» disse facendo sentire la maiuscola «che la situazione dei nostri organici militari è scarsa e che avremmo bisogno di nuove leve?»
Fabio annuì, divertito per il tono del generale. «Sì, Immanuel. È tuttavia la quarta volta che glielo chiedo e tu non sei mai stato esaudito. Pare che il Presbiter abbia un altro tipo di preoccupazioni.»
E, così dicendo, spinse la grande porta di legno intarsiato entrando nello studio del re–sacerdote. Tra le due pareti, adibite a biblioteca e ricoperte di voluminosi tomi, era posto un grande tavolo, dietro al quale sedeva la figura giovanile coronata da uno zucchetto nero. Il Presbiter Johannes si alzò non appena Fabio fu a distanza di voce.
«Signore, non vi ho visto al mio banchetto sebbene vi avessi mandato a chiamare. Volevo conoscere quanto è successo a Nova Magna negli ultimi nove mesi che prescindesse dal pettegolezzo»
«Johannes, non è bene che popolo o notabili ci vedano insieme, Sai che ho voluto rimanere in questa città perché è la più isolata del tuo regno e non ho voluto alcuna responsabilità di governo perché ho voluto rimanere al servizio della Mia Diva, Nostra Diva. Non ha senso che siamo visti insieme.»
Il re, che pure ostentava deferenza nei confronti di quell’uomo, cercò di ribattere:
«Non è per questo che vi ho fatto chiamare. Ho meno soldati di quelli che servirebbero a sorvegliare i confini, e quel Calais vuole anche fare una spedizione contro i Cinesi che premono troppo a nord-est. Cosa ne dite voi, che anni fa eravate il generale più invidiato dell’Oriente?»
«Ho servito il mio Paese e non chiedo nulla dal tuo, ma vorrei sapere perché, con questi problemi, non arruoli un numero maggiore di soldati. Gli uomini della Transoxania non sono pochi come mi han detto vuoi far credere al tuo stratego.»
Il Presbiter era contrariato.
«Non voglio che il mio regno diventi come il vostro, una macchina da guerra. Io voglio un regno di pace.»
«Si vis pacem para bellum[1]. Per mantenere la pace è necessaria la sicurezza. Se vuoi il mio consiglio, richiama altri alle armi, e sposta i soldati che hai da dove il confine è più sicuro. A ovest c’è il fiume e poi il deserto; a sud il mare e infiltrazioni arabe; a ovest l’Indo, a nord popolazioni nomadi e a nord-est i Cinesi: non dovrebbe essere difficile scegliere da dove togliere effettivi.»
Fabio, a questo punto, si alzò dallo scanno su cui aveva seduto fino ad allora e si diresse verso la porta, ma Johannes lo fermò.
«Mi è arrivato oggi un messo che mi ha riferito di una novità a Bisanzio: il Patriarca Panatto è stato deposto da un Sinodo clandestino ed è un’altra volta sparito.»
Il re–sacerdote era sinceramente preoccupato, perché era stato ordinato dal Patriarca e lo stesso Patriarca gli aveva affidato la missione di fondare il regno cristiano che ora reggeva.
«Non preoccuparti. Non è impossibile che torni da te. Conosce il luogo dove ci troviamo e sa che qui troverebbe aiuto»
Dicendo queste parole Fabio si accomiatò dal giovane sovrano, che non si era tranquillizzato per le sue parole.
Immanuel Calais attendeva fuori dello studio.
«Allora?»
«Niente spedizione in Cina, ma gli ho consigliato di aumentare il numero dei soldati. Staremo a vedere. A che punto è la costituzione di quel corpo speciale di cui mi dicevi?»
«Quasi ho finito. Vuole comandarlo lei?»
«No. Ma forse ce ne sarà bisogno.»
Lasciando così lo stratego, Fabio uscì dal palazzo e tornò al santuario. La notte era scura, anche le luci del palazzo erano spente.
Solo ardeva il fuoco nel pronao del tempio. La statua nella nicchia balenava a sprazzi.
* A Nova Magna, nel regno del Presbiter Johannes
[1] «Se vuoi la pace prepara la guerra»

Capitolo I - Rex et sacerdos

I. Subiaci, in Romano ducatu*
La trascrizione degli scritti di Sant’Agostino procedeva alacre nel vasto scriptorium; dall’esterno giungevano i suoni della campagna, il silenzio dell’interno era accompagnato dal rumore delle penne che grattavano la pergamena. Il monaco lavorava chino sul suo bancone, gettando di tanto in tanto uno sguardo al testo che stava copiando.
Era la traduzione in latino di un antico testo orientale, portata da un chierico di Roma pochi giorni prima con l’ingiunzione di farne una copia il più velocemente possibile e senza miniature né fronzoli. Il giovane monaco copiava senza pensare, nonostante alcune parole che scriveva non avessero per lui alcun senso: Avesta, Ahura, Veda…
Quando ebbe finito, ripulì la penna dall’inchiostro e si alzò dal duro seggio. Portando il manoscritto e l’originale all’abate, che si trovava dalla parte opposta del monastero, e osservando i colori della natura in autunno, il giovane provò nostalgia per il mondo, che aveva deciso di lasciare prima di entrare nell’ordine benedettino.
Il desiderio di vedere e conoscere il resto dei mille ambienti e panorami del creato lo prese e gli fece rimpiangere, per un attimo, la vita secolare.
Entrato nella sala del capitolo, questo e mille altri pensieri svanirono.
Ad attenderlo, in piedi accanto alla parete, c’era un prelato. Il monaco gli cercò un anello al dito da baciare, ma non lo trovò.
«Puoi consegnarmi l’originale, ma tieni la copia. Sei dom Iorges, dico bene?»
Il prelato, rivelando accento greco, gli aveva rivolto la parola quasi senza muovere le labbra.
«Sì, padre. Perché volete che tenga la copia che mi è stato ordinato di fare?»
«Ho chiesto all’abate di poter prendere con me un bravo giovane per un importante compito, richiesto dal Santo Padre in persona.»
Il giovane, Iorges, si trovò a muovere un’obiezione.
«Ma uscire dall’abbazia equivale ad infrangere la Regola…»
«Sono cardinale diacono, e la missione è di fondamentale importanza per il Papato. Il Santo Padre Vitaliano ha fatto affidamento su di noi.»
Iorges sentì nella frase qualcosa di stonato, ed obiettò una seconda volta: «I Cardinali diaconi, che io sappia, sono sette, sono romani e non parlano con accento greco. Voi chi siete?»
«Sono cardinal ΡαεFώθζ, l’ottavo cardinale diacono, presidente del Pontificio Consiglio per la diplomazia. Abbiamo una missione d’importanza fondamentale. E, tra l’altro, se rifiuti dovremo isolarti in qualche eremo, perché hai avuto modo di leggere il manoscritto.»
Non fu difficile per Iorges decidersi; doveva scegliere tra il partire per una missione lontano dal monastero o il ritirarsi, da solo, in vetta a qualche montagna. Chinando il capo, ma solo per nascondere gli occhi che urlavano entusiasmo, rispose:
«Eminenza, vengo con voi…»
Il cardinal ΡαεFώθζ lo condusse alla foresteria, dove li aspettavano due muli. I due uscirono dalle mura senza che alcuno parlasse con loro e senza parlare con nessuno. Iorges, lasciandosi alle spalle la mole del monastero, in cui aveva vissuto per alcuni anni senza alcun contatto con il mondo esterno, era contento per aver esaudito il suo desiderio, ma anche un po’ intimorito dal suo compagno di viaggio. Il cardinale, intanto, lo precedeva in silenzio sulla stretta mulattiera che scendeva attraverso i campi coltivati dai coloni del monastero.
Il sentiero, facendo un’ampia curva, spariva dietro una scarpata. Appena sparito dalla vista il complesso d’edifici, sul sentiero aspettavano due cavalli. Il cardinal ΡαεFώθζ ordinò a Iorges di fermarsi e scendere dal mulo.
«A cavallo si procede più velocemente.», spiegò, e salì con un balzo in sella al destriero, nonostante fosse d’età più avanzata rispetto a Iorges che, invece, arrancò non poco per montare in sella. Quando fu riuscito nel suo intento, Iorges notò il Cardinale che ricopriva la sua lunga veste scarlatta con un manto nero come la notte e imbracciava una scimitarra già seriamente provata nel corso di tante battaglie.
«È meglio essere armati», aggiunse.
E ordinò: «Copriti il capo con il mantello. Non vogliamo farci riconoscere»
Dopo che Iorges ebbe obbedito a ΡαεFώθζ, questi spronò il cavallo attraverso i campi, seguito dal giovane monaco.
Dovendosi recare fuori dell’Italia, a Iorges sembrò normale dover raggiungere un porto, nella fattispecie Anzio o Civitavecchia, che si trovavano a poche ore di cavalcata dal luogo dove si trovavano. Il Cardinale, invece, si diresse verso le cime dell’Appennino. Oltrepassato un agevole valico a pomeriggio inoltrato e discesi fino al mare Adriatico, i due religiosi giunsero ad un’isolata caletta, al centro della quale era ormeggiata un’imbarcazione battente insegne saracene. Sulla spiaggia era stata tirata in secca una scialuppa ed un manipolo di marinai si scaldava intorno ad un fuoco stentato. Era già scesa la sera e, salvo i fuochi che illuminavano la scena, l’aria era buia. Mentre scendeva da cavallo, il Cardinale rivolse la parola a Iorges per la prima volta dopo la loro partenza dal monastero:
«A dispetto dell’impressione, siamo ancora abbastanza lontani dal mare, e non ci imbarcheremmo comunque prima di domattina. Sistemiamoci qui per la notte.»
Iorges era però in allarme per la presenza della nave mussulmana.
«Eminenza, non volete che io vada nei villaggi ad avvisare della presenza di quei pirati? Potremmo salvare molte vite, se riuscissimo a dare l’allarme in tempo!».
Il Cardinale sorrise.
«La nave non appartiene a pirati saraceni. È stata portata qui dal porto di Ravenna per permetterci di giungere in Terra Santa in incognito, se riusciremo ad evitare la flotta di Bisanzio, e per farlo seguiremo una rotta in alto mare. E, in quanto a te, pensa solo a salvare il manoscritto che porti, dom Iorges.»L’indomani il battello lasciò la costa italiana diretto a Damasco.
* A Subiaco, nel ducato di Roma

sabato 13 ottobre 2007

Προλόγος - Rex et sacerdos

Προλόγος*
Il lento incedere dei passi lasciava orme effimere nel sottile strato di sabbia che ricopriva la pianura. Le alte sagome dei monti chiudevano l’orizzonte da tre lati, mentre il fresco gorgogliare di una sorgente riempiva l’aria. Il vento sferzava le stoppie e cancellava i segni dei calzari.
L’uomo, aiutandosi con un bastone, camminava in direzione del giovane rivo, dell’appena nato fiume Choaspe. Nonostante fossero passati tanti anni, le ossa ancora biancheggiavano nella pianura, gli stendardi giacevano strappati, ma intatti per la mancanza di umidità che li aveva conservati come vent’anni prima. Le armi dei caduti si ricoprivano di uno strato di ruggine. Accanto ai resti di due soldati, due spade, ancora macchiate di sangue, rimanevano nascoste dalle sterpaglie. Una delle due spade, però, sembrava non aver subito il passare del tempo. Lucida, benché ci fossero due grosse chiazze di sangue, scintillava come fosse stata appena forgiata. Nell’elsa era incastonata una pietra preziosa tagliata nella forma del monogramma cristiano.
La corazza dell’uomo che l’aveva stretta portava i segni della potestà imperiale bizantina.
Il viandante, dopo averla tersa del sangue coagulato, la sistemò sotto il saio da pellegrino che portava e riprese il suo cammino verso est.
* Prologo

Dedica - Rex et sacerdos



vigilandum est semper: multae insidiae sunt bonis
bisogna sempre vigilare: ci sono molti pericoli per i buoni
(Accii Atreus, fr VIII Dangel)

Nil sine magno
vita labore dedit mortalibus
Niente ai mortali ha dato la vita senza grande travaglio
(Quinti Oratii Flacci, Saturae, I, 9)

Liber II - Rex et sacerdos


Johannis V PP

Rex et sacerdos
In otio

Circiter DCLX post Christum natum

lunedì 8 ottobre 2007

Επιλόγος - Ragnarok

Επιλόγος*
A sera, Quinto Fabio, Panatto Retore ed il suo servo si riunirono con ΡαεFώθζ, che li attendeva al villaggio di Hexàmeron.
Nella valle ardevano due incendi, quello del ninfeo e quello del tempio; tra le fiamme del primo erano stati gettati i cadaveri, perché le fiamme li divorassero.
Il capo dei servizi di sicurezza era andato a cercare il resto dell’armata, ma non l’aveva trovata. I pochissimi superstiti della battaglia si erano ritirati.
«È finita. La sacerdotessa che aveva predetto la fine di un’era non sbagliava.»
Panatto Retore proseguì.
«Un’epoca è finita. Non esiste più nulla che possa provare la genitura della religione cristiana da quelle indoeuropee. Non posso fare altro che tornare da dove sono venuto. Non esiste più Susa, non esiste più Susiana.
I due motivi che mi allontanarono da Bisanzio, le mie ricerche e l’ostilità di Valente e Lilia con il Monofisismo che volevano imporre ai Romani, si sono esauriti o sono venuti a mancare. Tornerò al mio palazzo.»
«Patriarca Ecumenico, Patriarca di Costantinopoli, io non potrò più tornare indietro.», obiettò il suo servo.
«Iohannes, tu non puoi tornare. Dovrai raccogliere i sopravvissuti di Susiana, e condurli oltre l’Oxus. È predetto che sarà fondato un regno cristiano, al di là dei domini arabi.
Oggi è venerdì; venerdì santo. È giusto che il fuoco di Illa Diva oggi sia stato spento. Riaccenderai il Fuoco nuovo nel tuo regno nuovo. Ora io ti ordino sacerdote e ti ungo re, Iohannes.
Presbiter Johannes, rex et sacerdos. I.[1]»
Panatto Retore si mise in viaggio verso Bisanzio.
ΡαεFώθζ decise di non seguire Johannes e Quinto Fabio, che aveva intenzione di recarsi con lui ad oriente.
«Io vado a Roma. Il seggio di Pietro non è legato al trono di Cesare, come avviene a Bisanzio, e sono consapevole che voi, seguaci di Nestorio, siete degli eretici.»
Quinto Fabio, contemplando la statuetta di Illa Diva concluse.
«Io non mi sento di mantenere alcun potere sopra gli uomini, che a migliaia ho condotto alla morte. Johannes, lo rimetto nelle vostre mani. Io mi accontento di questa statua; vi chiedo solo di associarla al culto mariano.»
«Voi bestemmiate. Illa Diva non è Maria; non è Madre di Dio.»
«Neanche Maria. Siamo Nestoriani.»

Il Califfo di Damasco fu informato circa l’esito della battaglia. Tre eserciti distrutti, l’Impero decapitato.
«Oggi è un grande giorno. Il politeismo in Oriente è finito per sempre.»
*Epilogo
[1] «Prete Gianni, re e sacerdote. Va’»

Capitolo XII - Ragnarok

XII. Ragnarok seu Deorum occasus*
L’esercito susiano era preso tra due fuochi; manovrando per respingere l’esercito bizantino si sarebbe scoperto il fianco, da dove stava giungendo l’esercito arabo.
Adriano Re, che, tra l’altro, non aveva una grande esperienza di guerra, prese una decisione che avrebbe limitato le perdite ma che, forse, non avrebbe permesso alle forze del Tema di riuscire a contrattaccare in maniera incisiva.
Sul fianco sud vennero schierati i carri falcati di Cornua.
I Caldei federati, che già in diverse occasioni avevano riportato vittorie sugli eserciti, anche più numerosi, che gli Arabi avevano mandato in Mesopotamia, avrebbero fronteggiato le tribù musulmane.
In linea di battaglia, i carri da guerra attendevano l’ordine della carica. I cavalli e gli uomini fremevano per l’attesa.
Per fronteggiare l’esercito di Bisanzio, meglio armato ed organizzato, Adriano Re decise d’utilizzare la fanteria oplitica contro le rapide cariche della cavalleria, mentre gli elefanti persiani e la cavalleria sarebbero stati utilizzati contro gli uomini appiedati.

L’alba si avvicinava rapidamente.

Appena un raggio di sole superò le cime dei monti che delimitavano la valle, ΡαεFώθζ gridò l’urlo di battaglia dei Servizi di sicurezza. Un centinaio di uomini balzò fuori dalla foresta gettandosi contro l’Illius Ninfeo. Le sentinelle massagete, che avevano passato la notte con le sacerdotesse, furono colte di sorpresa dal primo impeto dei Susiani e vennero sopraffatte. La battaglia si portò all’interno dell’edificio. Svegliati dal rumore della battaglia, altri barbari scendevano dalle stanze per gettarsi contro gli assalitori.
Panatto Retore ed il suo servo si tenevano, per precauzione, all’esterno del ninfeo, ma presto dovettero entrare perché i Massageti presero a lanciare dalle finestre tutto quello che potevano, tentando di colpire e rallentare i soldati che irrompevano nella costruzione. Intanto, ΡαεFώθζ ed Αρσωΐν si aprivano la strada mietendo vittime, mentre Quinto Fabio cercava in ogni stanza la gran sacerdotessa. Ella, infatti, avrebbe dovuto custodire il libro che Panatto andava cercando. I Massageti non erano molti, né molto abili, e presto furono confinati in un salone, dove si trovava anche la sacerdotessa con il libro.
Mentre ΡαεFώθζ faceva abbattere la porta e i soldati incominciavano ad entrare combattendo nella sala, Quinto Fabio s’avvide che un paio di Massageti erano riusciti ad uscire e si stavano dirigendo, nel bosco, verso il Tempio di Illa Diva.
Si gettò a capofitto per la scala elicoidale che circondava l’atrio del ninfeo buttandosi al loro inseguimento.
Αρσωΐν aveva mietuto molte vittime quella mattina, e la stanchezza cominciava ad annebbiargli i sensi ubriachi di sangue; perciò non s’avvide che, mentre trapassava con un colpo solo il torace tatuato di Ierolma, da dietro le sue spalle si avvicinava Currus, il quale gli conficcò un pugnale nel collo.
ΡαεFώθζ, accortosi che il compagno aveva mischiato il proprio sangue con quello del nemico, si gettò contro Currus brandendo la scimitarra. Con un fendente al collo, la testa del capo barbaro cadde.
Con i pochi sopravvissuti, ΡαεFώθζ uscì dal ninfeo, dopo aver raccolto il libro.
Le sacerdotesse, che avevano sempre abitato il ninfeo, sembravano assenti. Perlustrando le sale del piano terra, il capo dei servizi di sicurezza trovò un cumulo di cadaveri femminili. I Massageti avevano meritato la fine cruenta che gli era capitata.
Quinto Fabio, intanto, che correva in direzione del tempio, seguito da Panatto Retore ed Abbà, fu fermato da Felix Felis, che era riuscito a sfuggire alla strage perpetrata dai barbari. Questo voleva impedire loro di raggiungere gli altri inseguiti – in tre avevano fuggito la morte –, ma non fece in tempo a parlare, perché cadde ucciso.
Anche il secondo fuggitivo fu raggiunto e definitivamente fermato mentre cercava di prendere una barca per raggiungere l’isola su cui sorgeva il tempio. L’aveva già raggiunta, invece, Lepido Silvano, che cercava l’estrema difesa tentando di penetrare nel santuario. Per evitare che fosse violato da un barbaro, per giunta traditore e spergiuro, ma questo non poteva saperlo, Quinto Fabio lanciò, con tutta la forza che aveva, il giavellotto contro la curva figura di Lepido. La punta di ferro, dopo aver compiuto una lunga parabola, entrò nel centro della schiena del fuggitivo, che si schiantò al suolo con un rantolo.

Quando il sole era stato abbastanza alto da permettere la vista sul campo di battaglia, Adriano Re aveva ordinato di iniziare le operazioni.
I carri falcati di Cornua si lanciarono contro la fila di cammelli arabi, che furono completamente colti di sorpresa da quell’improvviso attacco. I cammellieri cercarono di scompaginare il proprio schieramento, per impegnare maggiormente l’avversario, ma furono quasi tutti sbalzati a terra per la caduta delle proprie cavalcature. In pochissimo tempo, la seconda ondata di carri aveva finito anche chi era rimasto a terra. Cornua, in segno di vittoria, finì personalmente il comandante degli Arabi, per poi far girare i carri e dirigerli contro l’alto esercito.
Intanto, la fanteria bizantina aveva lanciato il proprio attacco. Si era lanciata, a sorpresa, contro gli opliti susiani.
L’impossibilità di manovrare sotto la pioggia di frecce e giavellotti, costrinse il comandante della fanteria, Rots, ad ordinare un’avanzata, incurante delle perdite.
Gli elefanti persiani si muovevano troppo lentamente e non riuscivano ad intervenire; Cosroe, colpito da una freccia bizantina, era caduto, ed il suo secondo combatteva cercando di ridurre al minimo le perdite; i sintagmi andavano sempre più assottigliandosi, mentre si stava avvicinando agli elefanti la cavalleria di Bisanzio.
Valente II e Lilia Domna, nell’accampamento, già stavano disponendo di attaccare la valle di Illa Diva, quando Adriano Re, nel tentativo di risollevare le sorti della battaglia, già fortemente compromesse, con una carica andò ad accerchiare la fanteria avversaria, condannandola a venire eliminata dall’avanzare degli opliti.
Rots, alla testa del suo sintagma scelto, guidava l’avanzata che si faceva inarrestabile; ma fu colpito ad un occhio da una freccia infida, che lo fece cadere nella polvere. L’avanzata perdeva il proprio vigore, mentre già gli elefanti battevano in ritirata. Un’ultima carica di cavalleria, guidata da Adriano in persona, arrivò fino al campo imperiale, dove trovò schierata la guardia bulgara.
Il violento scontro rimase a lungo incerto, mentre Adriano, da solo, riusciva a penetrare nel campo nemico.
La prima persona che gli venne incontro fu Lilia Domna.
Adriano Re, con la sua lunga spada, la passò da parte a parte.
L’imperatore Valente II uscì dalla propria tenda sfidando a duello Adriano. Le sorti della battaglia e l’onore della carica di basileus lo imponevano
Mentre la guardia bulgara metteva in fuga la cavalleria susiana, che ripiombava sulle retrovie bizantine, Adriano e Valente si scontrarono. Andato a vuoto il lancio dei giavellotti, erano già giunti al corpo a corpo. Le corregge che reggevano la corazza anatomica di Valente furono recise, mentre Adriano fu ferito profondamente alla spalla sinistra, perdendo lo scudo.
Approfittando del momentaneo smarrimento dell’avversario, Valente gli menò un fendente letale. Adriano cadde, sputando sangue.
Con un ultimo sovraumano sforzo, protese il braccio e la spada in direzione di Valente, esausto ma distratto dalla vittoria, colpendolo dove non era coperto dalla lorica.
Cadde addosso ad Adriano; i due perirono più uniti di quanto non avessero mai vissuto.

Il ritorno dei carri di Cornua fu notevolmente favorevole ai Susiani. I cavalli di Cornua, lanciati nell’ennesima carica, incespicarono in una buca sbalzando fuori il conducente. Quello che lo seguiva non se ne avvide subito, e quando lo fece era troppo tardi.

Nella valle di Illa Diva, Quinto Fabio stava per entrare nel tempio, insieme ad Abbà e a Panatto Retore.
La luce, che entrava da una finestra sul fondo del tempio, andava a cadere su un piccolo loculo.
In quel loculo c’era una piccola statuetta, raffigurante una figura femminile dall’indicibile grazia, davanti alla quale arrancava moribondo il fuoco sacro. I capelli cerchiavano un volto sottile e pieno di grazia, il corpo, scolpito a tutto tondo in alabastro, aveva la celestiale armonia delle statue greche; Quinto Fabio ne fu ammaliato. Mentre Panatto esaminava i testi in sanscrito che erano accumulati in un angolo, Abbà iniziò a raccogliere i molti ex-voto e oggetti votivi preziosi che erano accumulati nel retro.
Quindi uscirono, Quinto Fabio in contemplazione della statuetta, che aveva asportato, Panatto Retore ed il suo servo dei testi, Abbà degli ori del tesoro del tempio.
Mentre i primi si allontanarono velocemente, insieme ai superstiti dei servizi di sicurezza, Abbà appiccò fuoco al tempio. Poi sparì, confondendosi con un lampo di luce, prima che i tre riuscissero a fermarlo. Poi si allontanarono, mentre Panatto piangeva la perdita di tanta arte e cultura.
«Quando avrò finito di tradurre i testi, sapremo certo di più, ma abbiamo perso un patrimonio per l’universa umanità.»
Durante gli scontri, anche il ninfeo aveva preso fuoco. Non sarebbe rimasto nemmeno il ricordo di quella valle, fuori di essa.
* Ragnarok o Il crepuscolo degli dei

Capitolo XI - Ragnarok

XI. In Illius Divae valle*
La partenza dei Servizi di Sicurezza avvenne di notte. Nessun rumore proveniva dalla gola che iniziarono a percorrere. La rigogliosa vegetazione che ne copriva le ripide pareti, con l’oscurità, prendeva forme grottesche e mostruose. Ogni cespuglio ed ogni albero potevano nascondere insidie da parte dei barbari; i soldati n’erano consci. Gli unici a non essere preoccupati per i nemici erano Panatto Retore e il suo servo; la prima missione di guerra cui prendevano parte sembrava loro noiosa, almeno fino a quel momento. L’unica causa dell’agitazione che li prendeva era l’attesa prima di raggiungere i luoghi consacrati al culto di Illa Diva, il tempio e il ninfeo sede del collegio sacerdotale.
Quinto Fabio teneva la mano sull’elsa della spada.
La colonna stava ancora percorrendo la gola quando, da una posizione sovrastante, s’udì il rumore di qualcosa che stava rovinando loro addosso. ΡαεFώθζ urlò di togliersi dal sentiero, ma Αρσωΐν gli corse accanto facendogli notare che non esisteva nulla fuori del sentiero. Un oggetto di medie dimensioni piombò sulla strada. Αρσωΐν gli puntò contro la scimitarra, ma il corpo si rivelò essere quello di Hexàmeron.
Spaventatissimo e lacero, si gettò ai suoi piedi implorando aiuto.
Quando si fu calmato un poco, gli venne chiesto cosa fosse successo nella valle dopo l’arrivo dei Massageti.
Iniziò a raccontare singhiozzando.
«Una sera, la gran sacerdotessa si era portata all’esterno della valle, donde si vede la pianura circostante. I barbari accampati lì vicino l’hanno scorta e catturata. Hanno preso l’Illius Ninfeo, facendo prigioniere tutte le sacerdotesse, ed anche il ferito. Noi servi abbiamo subito molte ingiustizie, ci sono stati sottratti i nostri raccolti e sono state rapite le nostre donne. Quando da Abbà ho sentito che si stavano avvicinando i soldati che già erano stati qui, sono subito corso loro – cioè voi – incontro ma, per la troppa foga, sono caduto…Aiutateci, venite al nostro villaggio!»
Il nome che Hexàmeron aveva pronunciato era sconosciuto ai soldati, mentre a Panatto Retore sembrava già noto.
In risposta all’accorato appello, e anche per soddisfare la curiosità del dignitario, gli uomini seguirono il giovane lungo uno stretto sentiero, il cui imbocco era stato occultato, che portava ad un piccolo altopiano sospeso sulla conca in cui si trovava il tempio di Illa Diva.
Circondato da magre ortaglie, una corte di casupole era stretta attorno ad un fuoco stentato. Quinto Fabio e Panatto Retore furono introdotti nella capanna più grande, dove si trovava Abbà.
Gli occhi seri e pensosi di quest’uomo e la sua corta barba di tipo persiano si stagliavano su un volto che mostrava un’indefinibile mezza età. Portava brache di pelle, strette sotto il ginocchio, e si era gettato con noncuranza una casacca da pastore sulle spalle. In mano stringeva un frustino da cavallo, accessorio insolito per un pastore, tanto più che, avvicinandosi al villaggio, i soldati non avevano visto animali atti ad essere montati.
Si notava che il personaggio non aveva mai vissuto tra quei poveri coloni, ma era arrivato nel villaggio da poco, e pareva fosse informato di quanto succedeva – almeno, era informato del loro arrivo. Quinto Fabio, anche per evitare che gli sfuggissero informazioni, prese ad interrogarlo.
«Siete un Massageta?»
Quello rispose parlando con un fluente dialetto persiano
«No, signore. Sono uno straniero giunto qui per caso.»
«Come facevate a sapere che saremmo arrivati?»
«Avete troppo a cuore il santuario di Illa Diva per lasciarlo nelle mani di questi barbari, senza cultura né storia.»
«Siete dunque venuto per il santuario? Strano significato attribuite alle parole “per caso”. Che mi dite?»
«Usciamo, per favore.»
Il vecchio portò Quinto Fabio e Panatto Retore fino al bordo dell’altopiano, mostrando loro la valle con, al centro, il tempio di Illa Diva. Solo un tenue chiarore usciva dalla porta dell’edificio sacro. Il fuoco si stava spegnendo.
«È scritto che quando il fuoco della Diva si spegnerà, allora non ci saranno più speranze per i figli di Iafet, o se preferite gli indoeuropei, in Persia. Sento che ci stiamo avvicinando alla fine.»
Il canto dell’upupa risuonò lugubre.
«Dovremmo tentare il tutto per tutto; introdurci nel tempio per cercare di salvare i resti di millenni di culto.»
Dall’alto, l’Illius Ninfeo suonava dei canti sgraziati dei Massageti.
Quinto Fabio andò da ΡαεFώθζ, dandogli ordine di scendere a valle entro l’alba del giorno dopo.
La colonna si mise, lentamente, in marcia. Il terreno franava sotto gli zoccoli cavi dei cammelli, il rumore delle armi veniva attutito con stoffe, per evitare di essere scoperti dai nemici.
Guidati da Hexàmeron e accompagnati da Abbà, i soldati raggiunsero il bosco che circondava l’Illius Ninfeo un’ora prima dell’alba.
Si era deciso, dopo una lunga discussione tra gli ufficiali ed Abbà, durata per tutto il cammino notturno, che i soldati avrebbero attaccato prima il Ninfeo cercando di sopraffare i Massageti; in seguito, Panatto Retore, Quinto Fabio ed Abbà sarebbero entrati nel santuario per cercare la risposta agli interrogativi del dignitario e le ricchezze accumulatesi nei secoli.

All’esterno della valle, un uomo a cavallo si precipitò nella tenda di Adriano Re, che aveva assunto il comando dopo la partenza dello Stratego. Era stato avvistato, proveniente da sud–est, l’esercito degli arabi. Era formato dagli uomini di quattro tribù, montati su cammelli e armati con arco e scimitarra. Un esercito di armati, grande dieci volte i Servizi di Sicurezza di Susiana. Al suo comando c’era El Q̉ hrą, che già aveva guidato la missione diplomatica araba a Bisanzio.
Adriano Re, svegliatosi e benedicendo ΡαεFώθζ per il suo presentimento, si preparava a far schierare l’esercito per respingere gli Arabi, che avevano evitato la capitale Susa per dirigersi direttamente alla sorgente del Choaspe, dove avevano saputo essersi fermato l’esercito del Tema.

Pochi minuti dopo, un altro esploratore arrivò, terreo in volto.
Al contrario del primo, che aveva stimato non molto preoccupante l’armata araba, questo si era trovato davanti un esercito numerosissimo. Non tanto quanto quello susino, ma capace di impegnarlo acerrimamente. Inoltre, il monogramma cristiano caricato sugli scudi e i gonfaloni aveva avuto il potere di terrorizzare il soldato, consapevole che il Tema per cui combatteva era nemico del più grande impero della terra.

L’esercito dell’Impero Bizantino, guidato dall’imperatore in persona, accompagnato come sempre da Lilia Domna, si era portato, per un apparente caso, dietro al massiccio montuoso che proteggeva il santuario. Di là, subito era stato scorto il campo susiano, e l’esercito si stava schierando in ordine di battaglia per il mattino dopo.
* Nella valle di Illa Diva

venerdì 31 agosto 2007

Capitolo X - Ragnarok

X. Apud Choaspis fontes, in castris Susiani exercitus*
L’intero esercito del Tema indipendente di Susa si era accampato vicino alla sorgente del fiume Choaspe, ai piedi del gruppo montuoso che nascondeva il Santuario di Illa Diva.
Le diverse armate che componevano l’esercito erano schierate separatamente, intorno alle tende del re e dello stratego. In un primo quadrato erano sistemati i Caldei federati. I loro carri da guerra falcati, allineati e pronti per essere attaccati ai cavalli, erano imponenti e terribili agli occhi. In realtà, tutto l’esercito susiano era spettacolare, nella sua grandezza: centinaia di elefanti da guerra ricoperti da catafratte multicolori, una cavalleria bizantina resa più mobile imitando le tecniche barbare, le forze di ΡαεFώθζ, armate come gli eserciti musulmani. La fanteria era l’innovazione tattica più singolare di Quinto Fabio: fondandosi ormai gli eserciti sulle cariche di cavalleria, che avevano sopraffatto la mobilità dello schieramento manipolare romano, aveva compiuto un ritorno al passato. I soldati della fanteria utilizzavano, infatti, un armamento oplitico di tipo alessandrino che, grazie alle lunghe sarisse, resisteva inamovibile alle cariche di cavalleria. I nemici sopravvissuti sarebbero stati poi finiti dalle cariche dei carri falcati, seminatori di stragi.

Non solo i militari ed il re erano partiti da Susa, ma anche Panatto Retore con un suo valletto. La vicinanza al Santuario di Illa Diva lo metteva in grande fermento, mentre il suo servitore pareva atterrito dalla situazione.
Una sera, arrivarono i due esploratori che ΡαεFώθζ aveva inviato a cercare i Massageti. Avevano trovato i resti di un loro accampamento, abbandonato in tutta fretta. Tracce portavano all’ingresso della valle nella quale si trovava il Santuario di Illa Diva.
La presenza di barbari pericolosi all’interno del luogo più inviolabile dell’Oriente non fu, com’era opportuno, resa nota alla truppa.

In compenso, si tenne un consiglio di guerra tra i diversi generali dell’esercito.
All’interno della tenda dello Stratego, sedevano Cosroe, comandante dei Persiani, Parvo Cornua, comandante dei Caldei federati, ΡαεFώθζ, capo dei Servizi di Sicurezza, Rots, capo della fanteria e Adriano Re, che assolveva il compito di capo della cavalleria oltre, naturalmente, al comandante supremo.
ΡαεFώθζ, l’unico ad essere già penetrato nella valle segreta, prese la parola per primo: «Signori colleghi, io ritengo che sia più utile portare all’interno della valle solo delle truppe scelte, le mie. Non so perché, ma ho un brutto presentimento, e sarebbe bene che la maggior parte dell’esercito rimanesse fuori della valle.»
Come il militare avesse avuto quel presentimento, nessuno dei presenti poteva immaginarlo, e forse nemmeno lo stesso ΡαεFώθζ lo sapeva; ciò nonostante, pareva che nessuno degli altri generali avesse voglia di inoltrare i propri uomini in quella cupa gola, tanto adatta ad un’imboscata.
Solo Quinto Fabio, che non aveva certo fatto uscire tutto l’esercito per una semplice orda barbara, volle avere l’ultima parola: «Vengo anch’io. Faremo presto»
In quel momento, si affacciò all’ingresso della tenda Panatto Retore: «Vengo anch’io, signori.»
I militari erano stati molto scettici circa la presenza, in una missione di guerra, di un dignitario di corte, e tanto più ora che voleva partecipare ad un’operazione delicata come quella che si stava preparando. La resistenza che ΡαεFώθζ cercò di opporre alla sua presenza fu però stroncata da Quinto Fabio, che conosceva il motivo che spingeva lo studioso a voler introdursi nella valle.
* Presso le sorgenti del Choaspe, nel campo dell’esercito susiano

lunedì 27 agosto 2007

Capitolo IX - Ragnarok

IX. Byzantii, in Sacro Palatio*
La situazione dell’Impero Bizantino, ancorché grave, si stava stabilizzando. Dopo averlo portato a perdere in pochissimo tempo tutta l’Africa Settentrionale, l’espansione araba si era lentamente arenata, per via di conflitti interni.
Le tribù arabe si erano spaccate in due fazioni, quella dei fedeli di Alì, assassino ed integralista, e dei fedeli della dinastia regnante, in odore di usurpazione. Mentre questi ultimi avevano svolto una politica espansiva in Africa, a spese dell’Impero dei Romani, i primi tendevano ad occupare territori in direzione del Tema di Susiana. Per questo motivo, l’imperatore Valente II era sinceramente preoccupato, dato che l’espansione sciita minacciava anche il Santuario di Illa Diva.
Al contrario, Lilia Domna aveva un occhio di riguardo per questa fazione araba, poiché l’unione di potere politico e religioso che propugnava era molto simile ai fondamenti del potere bizantino e quindi, in linea di principio, suo affine.
In gran segreto, nei suoi appartamenti privati, da dove amministrava l’impero, stava ricevendo una legazione diplomatica di Sciiti.
«Signori, siamo venuti a sapere dei vostri tentativi di sottomettere la Susiana.», esordì la donna.
«In realtà, signora, non abbiamo mai tentato di invadere quel territorio, e siamo venuti da voi per discutere di una nostra eventuale spedizione oltre il corso del Tigri.»
«Se il vostro desiderio è conquistare quella regione, sappiate che si è resa da noi indipendente più di un anno fa, nonostante il basileus non voglia rendersene conto. Io sono convinta che un’invasione da parte vostra, in quella terra di Nestoriani, che non riconoscono l’esclusiva natura divina del Cristo, sia più che opportuna.»
«I vostri sofismi teologici non ci interessano, signora. Giurate quindi che non interverrete contro l’esercito che porteremo in Susiana?», cercò di concludere l’ambasciatore arabo
«El Q̉ hrą, vi propongo un accordo diverso. Noi invieremo un nostro esercito, che compia azioni di disturbo nei confronti delle forze susiane, che so essere molto preparate anche nei confronti di un attacco massiccio. Poi ci spartiremo le conquiste. A voi la Susiana e a noi la restituzione dell’Egitto.»
Dal punto di vista strettamente economico, questo accordo era decisamente a favore dei Bizantini, che si sarebbero ripresi un territorio già perduto.
In questo senso, l’accordo che Lilia Domna e l’ambasciatore degli Arabi El Q̉ hrą combinarono era un grande successo diplomatico per il trono di Bisanzio.
Scesero però in campo le motivazioni ideologiche, quando Lilia Domna andò a parlare all’imperatore. Infatti, a Valente balzò subito all’occhio il fatto che, in base a quell’accordo, si sarebbe perduto per sempre il Santuario di Illa Diva.
L’imperatore non voleva ancora ammettere che anche la missione di Felix Felis era stata un fallimento. La colpa fu data ai predoni arabi, cui effettivamente apparteneva, anche se questa volta non ci fu nessun sopravvissuto a tornare indietro.
Per questo motivo, giunto a lite con Lilia Domna per via della guerra, decise di mandare il proprio esercito nel Tema di Susiana, ma non per supportare l’invasione araba che si stava preparando, bensì per prendere possesso del Santuario di Illa Diva, di cui non conosceva la posizione ma che era convinto poter trovare, una volta raggiunta la regione.
Gli Arabi, al contrario di quanto si potesse pensare, conoscevano già bene l’arte della diplomazia: erano rimasti nel Sacro Palazzo due spie, che assistettero alla conversazione nella sala del trono tra l’imperatore e Lilia Domna. Non sarebbero stati colti di sorpresa dalla manovra di Valente.

Così, in poco più di un mese, l’esercito di Bisanzio, formato dagli uomini inviati dagli Strateghi dei Temi fedeli, in gran parte dallo Stratego di Anatolia e dallo Stratego di Longobardia, e da truppe mercenarie e federate, reclutate oltre il confine settentrionale, tra cui i Bulgari, fu pronto per scendere in guerra.

Nello stesso tempo, gli ambasciatori arabi erano tornati a Damasco, dove riuscirono a convincere il Califfo ad allestire la missione d’invasione. Le tribù beduine dell’Arabia centrale si dimostrarono subito pronte a scendere in guerra mentre, come prevedibile, furono più titubanti i comandanti delle forze reclutate nelle regioni da poco annesse; ma, nonostante questi problemi, anche il Califfato di Damasco, con un esercito non potentissimo ma certamente agguerrito, si preparava a scendere in guerra contro il Tema di Susiana.
* A Bisanzio, nel Sacro Palazzo

domenica 15 aprile 2007

Capitolo VIII - Ragnarok

VIII. In Illius Nympheo*
Il ferito si era ripreso bene, e ora godeva quasi di ottima salute. A parte un leggero claudicare alla gamba destra e una cicatrice sul braccio, sembrava non aver subito nessun infortunio.
Aveva continuato a vivere nel Ninfeo, in un appartamento privato ricavato al piano terra. Felix Felis, che aveva conosciuto, forse più di quanto permesso dalla loro Regola, le sacerdotesse di Illa Diva, viveva in pace i suoi giorni.
Vestito con l’unico abito di produzione locale, la leggera veste di lino bianco che usavano sia le sacerdotesse sia Hexàmeron, non aveva più la fiera marzialità che gli infondeva la lorica né la ieraticità conferitagli dall’abito d’ambasciatore.
Le sacerdotesse presero a frequentarlo spesso e iniziarono ad ammirarne il fisico e le gesta.
Pur da sempre chiuse nella loro valle isolata, trovavano particolarmente bello l’aitante militare che era loro ospite.
Tra tutte le sacerdotesse, quella che più frequentemente si intratteneva con Felix era la priora. La donna, che si era assunta il compito di accudire il ferito, ne aveva conosciuto per prima le doti, e l’ammirazione che le aveva suscitato si era, col tempo, trasformata in infatuazione.
Scendeva di nascosto, in tutte le ore del giorno e della notte, nella stanza dell’ambasciatore per osservarlo dormire. L’ansimare, rivelato dal sollevarsi delle lenzuola sopra il corpo in riposo, dell’uomo la rapiva, facendole perdere la cognizione del tempo. Passava le giornate nascosta dietro una tenda, in contemplazione del ricoverato. Il corpo longilineo ma vigoroso e la carnagione bruciata davano una grande impressione di forza; la sacerdotessa li ammirava, tanto erano diversi da quello che avesse mai visto.

L’ambiente del collegio sacerdotale era piccolo e ristretto, e le voci circolavano velocemente. Il gusto del pettegolezzo non graziava le sacerdotesse, confinate nella loro valle dalla più giovane età.
I sorrisini e i commenti delle più giovani consorelle accompagnavano Tullia, la priora del collegio.
La sua infatuazione era nota a tutte, che ne parlavano nei momenti che il culto al tempio lasciava liberi, a dire il vero molti. L’unica persona a sembrare assolutamente ignara di tutto era Felix Felis, che non poteva accorgersi di quanto succedesse mentre dormiva e non pareva notare chi facesse parte della compagnia che aveva quando vegliava.
Con il passare dei giorni, Tullia perdeva interesse nei confronti della sua funzione di guida del collegio sacerdotale e ne prendeva troppo circa l’ospite.
Per quanto potesse essere piacevole abbandonarsi al vento dell’innamoramento, la sacerdotessa avrebbe fatto meglio a mantenersi vigile, soprattutto in funzione della propria profezia, cui, ormai, prestavano fede solo le personalità del Tema di Susiana.

Felix Felis, nel frattempo, non aveva dimenticato la propria missione. Il forzato riposo che gli era stato imposto dalle circostanze lo rendeva nervoso; nella solitudine scagliava oggetti contro le pareti. Avrebbe voluto riuscire ad andarsene, ma in quel luogo mancavano cavalcature e, tra l’altro, non sapeva neanche dove si trovasse. Quando si era reso conto di aver perso la lettera, che era riuscito a nascondere ai predoni prima di perdere i sensi, minacciò addirittura il suicidio. La sacerdotessa che, in quell’occasione, stava nella camera vicina era accorsa ed era riuscita appena in tempo a strappargli di mano il vaso che aveva rotto e con i cui cocci cercava di tagliarsi le vene.
Per farlo desistere dai suoi intenti, le sacerdotesse presero a passare molto più tempo in sua compagnia, spingendosi a violare apertamente la propria regola, conoscendolo. La qual cosa, oltre ad avvenire all’insaputa della priora ed in aperto spregio della regola, sottraeva con la passione terrena la cura celeste.
E, intanto, il culto regolare al tempio di Illa Diva presentava lacune e mancanze. Il fuoco sacro, che doveva essere acceso una volta l’anno, al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera, e che era spento pochi giorni prima, gettava poche faville, e più d’una volta si riuscì appena in tempo ad evitare che si spegnesse.
Lo stesso Hexàmeron, che viveva in condizione servile in uno dei campi che rifornivano di grano il santuario, nonostante la vita georgica, si era reso conto che la situazione stava per cambiare. Una sera, quando la tempesta di sabbia si abbatteva anche sulla valle del tempio di Illa Diva, mentre in tutta la plaga regnava il silenzio completo, e solo una luce brillava nell’Illius Ninfeo – tra tutte, quella della stanza di Felix –, aveva distintamente udito il fragore di una battaglia.
-Pessimo presagio-, aveva pensato.

Tullia, la priora del collegio sacerdotale, si era andata convincendo che Felix, se non la ricambiava, almeno la considerava importante e non l’avrebbe certo preferita ad un’altra sacerdotessa.
La smentita arrivò cruda e dolorosa, durante una delle contemplazioni della sacerdotessa.
La sventurata scappò in lacrime.
Giunta di corsa al limitare del parco che circondava il Ninfeo, prese un sentiero che, risalendo uno dei monti che delimitava la valle, portava ad un posto d’osservazione sull’arido altopiano.
Era il crepuscolo.
La vista che Tullia aveva spaziava verso est, da cui sarebbe dovuta giungere l’oscurità. Nello stato di confusione in cui si trovava, le sembrò che la pianura rifulgesse di luce.
Quando si schiarì la vista, s’avvide che le luci non erano altro che falò accesi nella notte, in numero modesto. Intorno ai falò erano piantate delle tende di pelli, fuori delle quali stavano seduti, rumoreggiando, degli armati.
I Massageti erano arrivati.
* All’Illius Ninfeo

martedì 3 aprile 2007

Capitolo VII - Ragnarok

VII. Susae, Strategi sedes*
Il vento delle giornate precedenti era cessato, ponendo fine alla tempesta di sabbia che da giorni imperversava sulla città.
Il vento di guerra, al contrario, non era cessato, e Quinto Fabio lo subodorava, come un’alta nube che vela il sole, pur non avendone ancora notizia. Non fu sorpreso quando il messo gli annunciò lo sconfinamento dei Massageti nel Tema di Susiana.
I Servizi di Sicurezza di Ραευώθζ, inviati con giusto tempismo, avevano scongiurato il pericolo di un’invasione barbarica.
Qualcuno degli invasori, però, era riuscito ad eludere la sorveglianza ed era stato perso.
I Servizi di Sicurezza, in quel momento, stavano inseguendoli, ma ne avevano perso le tracce, mentre si stavano movendo in direzione del fiume Choaspe.

Quinto Fabio, congedato il messaggero, andò a pranzo da Panatto Retore, che da qualche giorno mostrava agitazione riguardo al progetto di trovare il santuario di Illa Diva.
Lo Stratego, quando aveva capito le ricchezze che si potevano nascondere nel tempio, gli aveva rivelato le sue informazioni, ma il dignitario non voleva partire per la sua ricerca. Come colpito da una sorta di timore, procrastinava il giorno della partenza e, intanto, aveva fatto testamento.
«Cosa temete, Panatto?», gli chiese Quinto Fabio.
«Quei barbari…si stanno movendo verso ovest, La loro strada sarà presto tagliata dal fiume Choaspe, se già non vi sono giunti, e lo vorranno forse attraversare. Oppure, sarebbero più accorti se, in questa stagione, non avessero voluto attraversare il fiume, ma ne avessero risalito il corso. Il santuario si trova nei pressi della sua sorgente...andrebbero molto vicini ai monti che difendono il santuario.»
«Capisco i vostri timori…che in questo caso coincidono con i miei. Farò in modo che i Massageti non possano raggiungere il Tempio di Illa Diva.»
Quinto Fabio uscì a grandi passi dalla casa del dignitario, portandosi al palazzo del governatore, in preda ad una crescente agitazione. La profezia si stava avverando. La disgrazia si stava preparando per il santuario inviolato nei secoli.
Chiesta udienza ad Adriano Re, trovò il governatore ignaro degli sviluppi recenti. Era usanza di Quinto tenere all’oscuro il signore di tutto quello che potesse decidere lui stesso, e di rivelargli i problemi solo se inevitabili. Non poteva più comportarsi in questo modo, se si fosse voluto scendere in guerra. Solo il re poteva, infatti, mobilitare le forze regolari.
«Domine, vengo a portarti brutte notizie. Pochi giorni fa, una tribù di Massageti ha violato i nostri confini in Hyrcania, e si sta dirigendo in regioni vitali per il nostro Tema. Chiedo il permesso di mobilitare le forze regolari a protezione del santuario di Illa Diva.»
Il re non rifletté molto e, quando lo Stratego parlò del famoso tempio, che aveva tanto desiderato visitare e che voleva salvo, decise di intervenire per disporre il proprio esercito intorno e nei pressi del tempio.

Ottenuta la firma della mobilitazione, Quinto Fabio tornò al proprio forte. Era presente, dei suoi generali, solamente Parvo Cornua, che comandava i Caldei schierati a sud di Susa.
«Cornua, corri subito al comando della tua armata e portati presso le sorgenti del fiume Choaspe. Là attendi il resto dell’esercito e sta’ in guardia nei confronti di eventuali barbari.», ordinò lo Stratego, che poi corse a preparare piani e bagagli per la spedizione.
* A Susa, sede dello Stratego

mercoledì 28 marzo 2007

Capitolo VI - Ragnarok

VI. Hyrcaniā, ultra Thematis fines*
Erano partiti dalle steppe dell’Asia centrale, in direzione del bacino del Mediterraneo, in cerca di terre più ricche e di bottini da razziare. In realtà, dopo qualche mese di cammino, si erano stanziati ad est del Mare Ircano. Le tende erano disposte a semicerchio, intorno alle due baracche in cui vivevano i capi.
I Massageti erano guidati da due capi, il cui valore era stato provato in anni di razzie nei confronti delle carovane e dei villaggi più lontani di India e Cina.
I costumi di questi barbari erano rozzi. Il popolo non conosceva l’uso delle selle né l’agricoltura, e i loro due condottieri, Currus e Ierolma, non avevano né abiti né ricchezze, salvo un certo numero di capi di bestiame.
Dal punto di vista militare, non avevano la forza di impensierire l’esercito ben addestrato e organizzato della Susiana, ma l’impeto improvviso che avrebbe potuto colpire le impervie regioni di confine poteva cogliere di sorpresa un’armata non ancora ben stanziata. Per tre volte i Massageti avevano provato a violare il confine susiano, ma erano stati respinti dalle truppe persiane in forza all’esercito provinciale.
Quella notte stavano preparando un’ulteriore incursione.
Currus, tatuato su tutto il corpo e completamente rasato, sosteneva da ore, ubriacato con l’assenzio, che si sarebbe dovuto lanciare un attacco concentrato sulla riva del mare Ircano, dove le fortificazioni erano più deboli, ma dove comunque erano già stati respinti una volta, con grave strage di uomini e cavalli. Ierolma, che portava i capelli secondo l’uso tipico delle popolazioni mongole, opinava invece migliore l’uso dell’astuzia e del tradimento.
«Ho inviato, mesi fa, due schiavi che avevamo razziato in villaggi qui vicini, perché allacciassero rapporti d’amicizia con il generale persiano che comanda questo settore di confine. Una volta ottenuta la sua fiducia, per loro due dovrebbe essere facile farci passare il confine di nascosto.»
Questo era il piano di Ierolma, che, dopo lunghe discussioni, fu infine accettato.

Un manipolo scelto di cavalieri massageti partì al galoppo verso il confine; quando arrivò in vista della linea fortificata, con una fiaccola segnalarono la loro presenza.
Le sentinelle persiane se ne avvidero, ma scambiarono la fiamma tremolante, che sparì subito, per uno dei fuochi fatui che si accendevano dalle torbiere bituminose che circondavano il Mare Ircano. Si accorse invece della fiamma Χυξξίαδις, che svegliò Lepido Silvano. I due sgattaiolarono fuori, nella notte fredda, e raggiunsero una rupe da cui si aveva una vista su tutta la piana sopra la quale incombevano le fortificazioni susiane. Con una fiaccola, Lepido Silvano indicò una depressione nel terreno, dal quale si poteva giungere non visti sotto il vallo. I cavalieri massageti si portarono, non visti, nel punto indicato dalle due spie, scavalcarono il vallo aspettando che la sentinella, nel suo giro, passasse loro accanto per renderla inoffensiva. Nel frattempo, si avvicinava in silenzio il grosso delle forze massagete. Il piano era semplice: grazie all’effetto sorpresa, la prima incursione avrebbe spezzato la linea del confine, nella cui frattura si sarebbe inserito il resto della popolazione, con donne e bambini, per inoltrarsi nelle steppe settentrionali del Tema di Susiana.
Svegliato dal rumore del primo attacco, Cosroe, il generale persiano, fece uscire, nonostante fosse notte e non si vedesse nulla, il grosso degli arcieri e uno squadrone di elefanti da guerra. La lentezza delle manovre persiane, dovuta sia alla natura delle forze in campo sia all’oscurità, fece in modo che il grosso dei Massageti riuscisse a passare praticamente indenne in Susiana. Χυξξίαδις e Lepido Silvano, resisi conto che il loro tradimento sarebbe stato presto scoperto, essendo stata la prima azione di Cosroe andare a cercarli e non trovarli, si unirono quindi agli incursori barbari.

I Servizi di Sicurezza guidati da Ραευώθζ, che erano da poco giunti in Hyrcania secondo gli ordini dello Stratego, erano invece addestrati ai combattimenti notturni. Nel loro accampamento, qualche miglio dietro la linea del confine, furono svegliati dai rumori del combattimento, portati dal vento di Borea. Schierati in ordine di battaglia, videro il passaggio della testa delle truppe massagete da lontano, e piombarono sul centro della colonna in marcia. Le corazze in cuoio dei barbari non poterono niente contro le scimitarre di ferro arabo, e presto questi furono fermati dalle forze giunte dal loro fianco. Nel frattempo sopraggiunsero i soldati persiani, che erano riusciti a riorganizzarsi, che piombarono sulla retroguardia dei Massageti, in fuga, massacrandola.
Tra i prigionieri che furono catturati in quella notte, c’era Χυξξίαδις. Lepido Silvano, invece sembrava essere riuscito a fuggire.
Quando Cosroe passò in rassegna i prigionieri, non poté fare a meno di notare Χυξξίαδις, che invano cercava di coprirsi il volto.
«Con questa moneta paghi la mano che ti ha nutrito per mesi, vile traditore?»
Cosroe era infuriato, soprattutto perché aveva perso molti uomini valorosi, e non molto numeroso era il suo esercito. Si avventò sull’omiciattolo, che cercava invano di nascondersi.
Quando gli fu addosso e cercò di strangolarlo, Χυξξίαδις estrasse, con una rapida mossa, un corto pugnale.
Αρσωΐν, che osservava la rivista dei prigionieri per cercare informazioni sulla meta dei barbari, se ne avvide in tempo.
In una frazione di secondo, estrasse una freccia dalla faretra che portava sulla schiena, la infilò nel lungo arco e la scagliò.
Dopo una breve e tesissima corsa, la cuspide metallica penetrò le carni del barbaro poco sotto il mento.
Senza un sussulto né un rigurgito di sangue, Χυξξίαδις crollò a terra, morto.
Il volto segnato di Αρσωΐν brillò di determinazione, per un attimo. Amava la morte, e dispensarla.
Una volta tornato Αρσωΐν al suo battaglione, Ραευώθζ diede ordine di partire, per inseguire i barbari che avevano sconfinato ed erano sopravvissuti alla carneficina notturna.
* In Hyrcania, oltre i confini del Tema

lunedì 26 marzo 2007

Capitolo V - Ragnarok

V. Susae, Thematis Susianae capute*
Era quasi l’ora di pranzo quando le truppe dei Servizi di Sicurezza giunsero alle porte della città. Gli abitanti, scortili da lontano e credendoli predoni arabi giunti fino alle porte della città, si rifugiarono in casa sperando nell’arrivo di un esercito amico.
Contro le aspettative degli abitanti, ma secondo gli ordini ricevuti, il centinaio di soldati si accampò, mentre all’interno delle mura entrò solamente Ραευώθζ, che si diresse verso il Comando Supremo, per fare rapporto allo Stratego, Quinto Fabio.
Entrato, fu fatto accomodare, e gli fu offerto da bere finché fosse entrato Quinto Fabio. Questi arrivò, felice di rivedere il compagno d’armi che da diversi mesi era in missione.
«Sono molto lieto di rivederti, ma è questo il modo di presentarsi senza preavviso alle porte? La popolazione è terrorizzata dai tuoi soldati, e non posso fare a meno di capirli. Che fretta ti ha condotto qui?», esordì lo Stratego.
«Imperator, sono venuto all’improvviso per via di un vaticinio funesto.
Avevamo intercettato una missione diplomatica bizantina, diretta a Susa. Purtroppo, è stata intercettata poco prima da veri predoni arabi, che ne hanno massacrato la legazione portando via oggetti preziosi e, probabilmente, anche il sigillo imperiale. Abbiamo portato l’unico superstite al posto più vicino, il santuario di Illa Diva. Lo conosci?»
«Siamo in pochi a conoscerlo. È vero quanto si dice, che è abitato da feroci amazzoni?»
«Sembrerebbe di no. C’è un collegio sacerdotale femminile molto rigido riguardo alla presenza di uomini, ma hanno accolto il ferito. Il problema è che, quando la superiora mi ha parlato, mi ha annunciato che sta per avvenire una grande sciagura sul tempio di Illa Diva, e probabilmente anche sul nostro Tema. Per questo mi ha esortato a recarmi qui velocemente per annunciarlo. Ci sono problemi sui confini?»
«Non appare nulla di tutto ciò, almeno per ora. Ma i miei informatori all’estero parlano di movimento presso i Turchi, nelle steppe a nord-est dell’Hyrcania.»
«Imperator, chiedo dunque che mi sia affidata una missione in quella regione»
«Bene, Ραευώθζ, Scriverò al generale Cosroe, che controlla il nostro confine settentrionale, comunicandogli della vostra presenza. C’è altro?»
«Sì, il Bizantino sopravissuto aveva con sé una lettera. Eccola», disse, porgendo a Quinto Fabio un rotolo di pergamena con impresso il sigillo imperiale di Bisanzio. Poi uscì, allontanandosi con i suoi soldati dalla città.

Rimasto solo, Quinto Fabio prese ad esaminare la lettera. Era indirizzata ad Adriano Re, che si sarebbe accorto se lui l’avesse aperta, rompendone il sigillo.
Era un problema. Se fossero riusciti a salvare dai predoni il sigillo imperiale, avrebbe fabbricato una copia della lettera simile in tutto e per tutto all’originale. Ma se si preparavano insidie all’indipendenza del Tema, leggendo subito la missiva sarebbe potuto intervenire tempestivamente. Non potendo rischiare di perdere la fiducia del suo dominus, lo Stratego si portò quindi, attraverso l’unica strada decente di Susa (nel frattempo era stata pavimentata) al palazzo del governatore, sempre più piccolo in confronto all’incombente mole del palazzo in costruzione.

Adriano Re stava prendendo il pranzo in terrazza, quando gli fu introdotto Quinto Fabio recante la lettera.
Apertala in presenza del dominus, Quinto Fabio iniziò a leggerla.
«Noi Valente II Imperatore e Basileus dei Romani, rammaricato per gli sgarbi diplomatici subiti («gli abbiamo sterminato la legazione…»), chiediamo ad Adriano governatore di Susiana che riconosca la Nostra suditanza, com’è stato da quando il suo avo Claudio Brembano ha strappato ai Persiani il territorio della Susiana facendone Nostro Tema.
Chiediamo dunque che il qui presente ambasciatore, Nostro plenipotenziario, venga accolto con il rispetto necessario al suo rango. Richiediamo ergo che siate ridotti
nostrā in potestate come è sempre stato.
Valente II
Basileus»
«Dalla lettera non si ricava nessuna informazione circa un possibile attacco ai nostri territori», osservò il Re.
«È vero, dominus, ma noi conosciamo bene la situazione politica a Bisanzio. Se l’imperatore ha scritto questo, e io sono portato a ritenere che sia scritto di suo pugno, giacché posso far notare un errore di ortografia, e Valente era un modesto atleta, prima di essere acclamato imperatore dal popolo, allora significa che quasi tutta la corte pensa il contrario, e cioè che la via diplomatica con noi è sprecata.»
«Capisco. Ma non tutte le notizie sono cattive, Quinto. È arrivato oggi, dopo un lungo viaggio che l’ha portato in Armenia, il mio Consigliere Capo, che ha, come mi ha detto, qualcosa da riferirti. Ti attende alla sua casa.»
Con queste parole, Adriano Re interruppe la conversazione.
Quinto Fabio, allora, curioso per l’ultima frase pronunciata dal re, andò direttamente alla casa del Consigliere Capo, Panatto Retore, che si trovava in una via laterale della strada principale.
La casa di Panatto Retore era una modesta costruzione di arenaria, come il palazzo del governatore, ad un piano solo. Dopo l’atrio si entrava in un piccolo porticato, sotto il quale stava seduto, leggendo un libro in sanscrito, il dignitario.
Come al solito cordialissimo, Panatto Retore esordì lodando il testo che stava leggendo.
«Induismo…grande religione, nonostante sia falsa. Questi testi indicano una concezione del mondo molto singolare, ma suggestiva. Ma noi cristiani…», e sarebbe andato avanti con la sua omelia se Quinto Fabio non l’avesse interrotto.
«Mi avete fatto chiamare, nevvero?»
«Sì, mio caro Fabio. Ma prima di dirti quello per cui ti ho convocato, giurerai di non rivelarlo a nessuno se non espressamente costretto, neanche al Re.»
«Quello che mi chiedete è molto singolare, e potrebbe far dubitare della mia fedeltà nei confronti di Adriano, nonché della vostra. Ma l’ultima volta che vi ho ascoltato, mi è stato molto utile. Giuro.»
Panatto Retore, visibilmente soddisfatto, si accomodò meglio sul triclinio per parlare stando più a proprio agio.
«Orbene, non sono andato in Armenia. Ricordi quando sono arrivato a Susa, diversi anni fa? Erano più o meno i giorni in cui Valente II riscuoteva più ostilità da parte dei suoi dignitari; la sua corte era scandalizzata per la moda alla Unna che stava diffondendo; il Patriarca cercava di trovare un accordo con il Papa in risposta all’eresia monofisita che si diffondeva in Oriente e nella stessa corte imperiale, e fu esiliato. Come ho scoperto sul tomo che stavo esaminando quando è entrato, esiste, forse in Susina, forse in qualche altro luogo di qua del Tigri, una località particolare dalle antichissime origini, che nasconderebbe qualche particolare rivelazione sulla natura divina. Ho cercato, durante i miei frequenti viaggi, questo luogo, ma non l’ho mai trovato. Penso sia nascosto molto bene, ma ritengo anche sia impossibile che possa essere sfuggito ai tuoi Servizi di Sicurezza. Quindi, in modo celato o meno, dovremmo collaborare per trovarlo.»
«Non comprendo una cosa. Perché dovrebbe essere vostro e mio interesse trovarlo? Non è affar nostro la ricerca della natura divina, mio perlomeno. Ma voi?»
«È mio interesse, in quanto sono da anni impegnato in un’accesa disputa coi monofisiti bizantini. Se questo testo», disse, indicando il grosso volume scritto in sanscrito, «è autentico, possiamo affermare che la Rivelazione monoteistica giudeo-cristiana non è parto delle popolazioni semitiche, come gli Ebrei, ma viene portata dalle popolazioni indoeuropee di stirpe ariana, tra i quali ci sono i Persiani che hanno regnato per secoli sui nostri territori. Ricordo, anche, che la fede degli Ebrei si è confermata nel pieno monoteismo dopo l’esilio di Babilonia, dal quale furono liberati, appunto dal primo gran re dei Persiani, Ciro il Grande; non è da escludere che ne abbiano assorbito alcune credenze. E noi, volenti o nolenti, sia che siamo genti romane o, come più probabile, persiane, traiamo origine dalla stessa grande cultura. Io intendo dimostrare che esiste un santuario risalente al periodo seleucide, o anche anteriore, che possegga elementi riconducibili alla fede o al culto cristiani. Credo sia presente una casta di tipo sacerdotale esclusivamente femminile, come evinco dai riferimenti di matrice monoteista nel culto vestale, analogo al quale dovrebbe essere il culto del santuario di cui sono in cerca».
Alle parole “esclusivamente femminile”, gli occhi di Quinto Fabio brillarono.
«Forse potrei darvi qualche informazione. Ma il problema persiste: a me, che ne viene?».
«È attestata, a partire dai primissimi tempi del santuario, la presenza di un immenso tesoro in oggetti votivi.
* A Susa, capitale del Tema di Susiana

martedì 20 marzo 2007

Capitolo IV - Ragnarok

IV. Hyrcaniā, septentrionale fine Susianae Thematis*

Il poco che era rimasto dell’esercito persiano, dopo che gli Arabi ne avevano causato il tracollo, si era schierato nei territori che gli erano stati assegnati da Quinto Fabio.
I comandanti persiani, che già avevano dovuto concedere molto agli antichi nemici, come la rinuncia allo Zoroastrismo religione di Stato, non avevano più l’autorità somma sulle loro truppe; i loro mastodontici pachidermi, che da secoli terrorizzavano tutti gli eserciti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, erano ora al servizio del signore del piccolo (una volta) Tema di Susiana.
Cosroe, generale persiano, guardava ora con desolazione il lembo di territorio che doveva controllare. Un altopiano insidioso ed arido, che degradava verso il lontano lago salato, attraversato solo da una via carovaniera.
Gli Arabi, non paghi delle loro recenti conquiste avrebbero certo portato le proprie armate in questa direzione, per cercare di controllare la vitale via della seta. Il suo lungo abito, che gli cadeva fino ai piedi, si impolverava lungo i camminamenti di guardia, in posizione sopraelevata, che costeggiavano per un lungo tratto la pista. Le carovane, un tempo relativamente frequenti, erano drasticamente diminuite di numero e aumentate di consistenza, giacché nessuno più si fidava; i mercanti cristiani erano attaccati dai predoni arabi, e i mercanti arabi erano fermati dall’esercito della Susiana, che non ne permetteva il transito.
La notte iniziava a tendere all’alba, quando due figure attraversarono furtivamente la pista. La sentinella, scortele, avvisò subito l’ufficiale di guardia. Dopo cinque minuti erano già state catturate e condotte dal generale Cosroe.
Erano una singolare coppia d’uomini. Il primo sembrava portare i segni di tutte le epidemie di vaiolo del mondo. I segni che gli solcavano il volto erano tanto profondi, tanto irregolare il profilo delle sue gote che a difficoltà se ne scorgevano i connotati, salvo il grosso naso prominente e le profonde occhiaie che ne cerchiavano gli occhi. L’altro era più alto, ma la sua schiena non era in grado di stare in posizione eretta. Aveva una faccia da satiro, con piccoli occhietti e capelli incolti, e una grossa gobba sulla schiena.
Furono interrogati.
Il secondo, che pure pareva più intelligente, non era in grado di capire la lingua, né il persiano usato dai soldati che l’avevano catturato né il greco o il latino con cui si sforzava di farsi intendere il generale.
L’altro, invece, masticava qualche parola di Persiano.
«È vietato» scandiva Cosroe «introdursi nel Tema di Susiana senza visto e, come nel vostro caso, documenti. Chi siete?»
Il primo, con una voce gutturale e sgradevole, rispose sostenendo che erano due Ircani fuggiti dal proprio paese natio. Lui si chiamava Χυξξίαδις[i]. Il suo nome era greco per il fatto che suoi parenti venivano dall’Ellade, ed aveva imparato un po’ il Persiano perché era stato fatto schiavo dai Persiani al tempo della conquista da parte loro dell’Hyrcania, nella quale viveva. L’altro era invece senza nome. L’aveva trovato in un caravanserraglio, dove presumibilmente viveva facendo divertire i mercanti. Anche in quel momento, infatti, stava mimando atti osceni suscitando l’ilarità della truppa.
«Selvaggio e “simpatico”», disse Cosroe con una vena di disprezzo «ti do io il nome che ti meriti, Lepido Silvano».
I due “clandestini” rimasero nel campo di Cosroe, adibiti a funzioni servili, vivendo in relativa tranquillità.
* In Hyrcania, confine settentrionale del Tema di Susiana
[i] pr. Cuxxiadis

giovedì 15 marzo 2007

Capitolo III - Ragnarok

III. In regno Damasceni chalifi, septentrionale fine*

Dall’alto di una rupe, tre uomini a cavallo di cammelli osservavano la piana sottostante, spazzata dal forte vento d’occidente. In qualsiasi direzione si guardasse, non si scorgeva anima viva. La pista che congiungeva Susa con Antiochia e Bisanzio passava sotto di loro, e si riconosceva per il colore più chiaro delle rocce, mentre intorno radi cespugli e pietraie occupavano la distesa arida. I tre uomini, interamente coperti da una veste, nera come il turbante, portavano al fianco una scimitarra e, dietro la schiena, arco e faretra. Quello dei tre che si trovava in posizione più avanzata, schermando la luce del sole con la mano, scrutava ripetutamente il tracciato della pista, come aspettando qualcuno.
Da Occidente, in lontananza, iniziò a sollevarsi un polverone, che avanzava lentamente. Dopo un’ora di attesa, la carovana si era portata al di sotto dei tre.
In quel momento, all’improvviso, risuonò un lugubre suono di corni, e da dietro le dune e i massi che si trovavano alla base della rupe uscì una cinquantina di uomini, vestiti di nero come quelli che sovrastavano la scena. Con le scimitarre sguainate si lanciarono contro la carovana, che era scortata da un esiguo numero di soldati.
«Comandante! Quelli non sono dei nostri!».
«Questo c’intralcerà non poco. Avremmo dovuto fermare la carovana, ma ora non è più possibile.»
Ραευώθζ [i], il comandante, ordinò ai suoi uomini di intervenire e di disperdere i predoni. Irruppero allora un centinaio di uomini in nero, che attaccarono battaglia con gli altri. Purtroppo, gran parte della carovana era già stata distrutta, e gli stessi predoni continuarono parte del loro massacro senza accorgersi del pericolo che si stava riversando su di loro.
Dopo dieci minuti, durante i quali le lame s’incrociarono e colpirono, i predoni arabi erano stati messi in fuga. Gli ufficiali si riunirono, scoprendosi i volti.
«Non erano questi i piani, comandante. Abbiamo perso qualche uomo.»
«Ora non è importante. Ci sono sopravvissuti tra i mercanti?», chiese Ραευώθζ.
Prese la parola un giovane ufficiale, che comunicò: «Non erano mercanti, comandante. Gli armati portavano le insegne bizantine. Si trattava di una missione diplomatica. C’è solo un sopravvissuto, pare l’ambasciatore.»
Le sue condizioni erano disperate. Fu medicato dall’infermiere, che premette affinché fosse portato in qualche posto sicuro e riparato, dove potesse essere curato a lungo. Facilissimo, in mezzo al deserto. La colonna si mise quindi in marcia, alla ricerca di un posto per portare il ferito. Ραεõώθζ puntò verso nord, e in qualche ora superò un’oasi e portandosi verso un gruppo montuoso. La vegetazione si faceva meno stentata, e le cime erano coperte di palmeti. Superata una strettissima gola, le cui pareti si innalzavano perpendicolari e invase da bassa vegetazione, fecero l’ingresso in una piccola conca riparata dall’esterno, dalla ridente vegetazione che circondava un ameno laghetto. Su un isolotto al centro del laghetto sorgeva un piccolo tempio in marmo azzurro.
«Signori, il famoso santuario di Illa Diva.»
Dal santuario, che si specchiava sulle acque calme del lago, uscì una figura in vesti bianche. Dopo aver osservato per qualche attimo i primi uomini che dalla gola sboccavano nella conca, rientrò nel tempio. Otto colonne in stile ionico reggevano il suo timpano triangolare, nel quale, scolpito in alabastro, campeggiava un gruppo scultoreo. Il podio sul quale il tempio reggeva era finemente scolpito di donne in processione, mentre una nuvola d’incenso aleggiava nei pressi dell’ingresso.
Il primo ufficiale Αρσωΐν[ii], portatosi accanto al comandante, gli chiese: «Comandante, non siamo dove ha detto, mi auguro…Le leggende dicono che nessuno degli uomini che ha cercato il santuario di Illa Diva è mai tornato vivo, e noi siamo tutti uomini. Qualcuno parla delle leggendarie amazzoni, che si sarebbero ritirate su questi monti mille anni fa, note per la loro attitudine a sterminare i maschi.» La sua giovane età, mostrata dagli occhi limpidi e trasparenti, contrastava con i segni profondi di un brutto vaiolo. Una goccia di sudore gli solcava la guancia, tremante per un tic nervoso. Era paura, quella che Ραευώθζ gli leggeva in volto e sulle mani, tremanti? Paura. Avessero saputo, i suoi soldati, la verità sul tempio, forse si sarebbero già dispersi per i boschi, cercando sollazzo e riposo. Tenendoli uniti, contava avrebbero mantenuto la disciplina anche in qualsiasi situazione.
Inoltratisi nel fitto della macchia, circondati dai versi di mille animali, gli uomini tremavano sotto il nero dei turbanti. Il sentiero girava intorno al lago, tra bassi cespugli di fiori odorosi e piante da frutto; una natura da giardino dell’Eden, che se non avesse nascosto insidie, sarebbe stata da godere fino all’ultimo respiro.
Si parò loro davanti un uomo. Una veste bianca e sottile ne copriva a malapena torace e cosce. Una stretta cintura gli cingeva i fianchi, e occhi da bambino guardavano i guerrieri, non spaventati ma stupiti, come se non avessero mai visto altri uomini.
Con voce sottile si rivolse al primo della fila, Ραευώθζ: «Io sono Hexàmeron. Chi siete voi, forestieri?»
«Siamo soldati e portiamo un ferito. Portaci all’Illius Ninfeo.», ordinò questi.
Allarmato, Hexàmeron si coprì il volto, rispondendo «Non è possibile, signore. È luogo proibito»
«C’è luogo interdetto a molti, ma spalancato a pochi. Bada, se vuoi salva la vita…» minacciò il comandante.
Il giovane, che non aveva più di vent’anni, si mostrò titubante ma, alla fine, cedette, e decise di accompagnare Ραευώθζ, Αρσωΐν e il ferito all’Illius Ninfeo.
La costruzione, in pietra rossa, si trovava nascosta nel più fitto del bosco. Una cupola semisferica, era retta da una costruzione dodecagonale alla quale erano addossati archi rampanti che scendevano sul corpo di base, formato da un blocco principale quadrato circondato da atri e porticati ombrosi. Nella cupola e nel corpo dodecagonale si aprivano finestre, velate da sottili tende di lino, mentre il rumore di numerose fontane riempiva l’aria. Hexàmeron, non appena fu in vista della cupola rossa, fuggì nel folto della macchia. Αρσωΐν, vedendo il giovane fuggire, fece per girare il cammello, ma fu fermato dal suo comandante con un cenno. Proseguirono quindi, trascinando la barella su cui avevano trasportato il presunto ambasciatore di Bisanzio. Quando uscirono dal bosco, trovandosi in un prato raso con cura, nel quale da una fontana sgorgava l’acqua che percorreva un ruscelletto per dirigersi in direzione del lago, Αρσωΐν smontò dalla sua cavalcatura e prese con sé anche quella di Ραευώθζ, che si era diretto, appiedato, in direzione del porticato.
Da dietro una grossa colonna di marmo rosso, un lieve soffio di vento mostrò il lembo di una veste bianca. Il suo proprietario, appena si avvide che non era completamente celato, si strinse contro la pietra, chiedendo, con un filo di voce: «Chi è là, stranieri?»
Il comandante si sciolse il turbante, mostrando lunghi capelli neri.
«Sono Ραευώθζ, comandante dei Servizi di Sicurezza del Tema di Susa. Mostratevi!»
E, così dicendo, gettò l’arco, la faretra e la scimitarra al suolo, intimando sottovoce ad Αρσωΐν di fare altrettanto.
Da dietro la colonna, allora, emerse una figura femminile, coi lunghi capelli, castani, al vento, vestita in modo simile ad Hexàmeron, sebbene si notasse che la qualità del filato e del taglio erano molto superiori.
Chinando il capo, per non incrociare lo sguardo di Ραεõώθζ, disse: «Stranieri, voi non dovreste essere qui. È molto grave sfidare Illa Diva, nostra guida.» Poi si avvide del ferito, che con bassi gemiti si lamentava per le sue ferite. Estrasse un sistro, che portava alla cintura, e il suo suono celestino attirò altre donne, che raccolsero il ferito portandolo all’interno del Ninfeo.
«Attendete qui, potreste essere ammessi alla presenza della nostra superiora»
Dopo qualche minuto, durante il quale il giovane Αρσωΐν riprese un po’ di colore, giacché non era stato fatto a pezzi come s’aspettava, tornò la donna, che introducendoli nel Ninfeo e portandoli nella cupola, spiegò loro un poco del luogo in cui si trovavano.
«Questo è il Santuario di Illa Diva. Noi siamo qui al suo servizio, che si svolge nel Tempio che avete visto. Ma interdetto è l’accesso agli uomini. Un tempo accorrevano qua donne da tutta la Media, chiedendo grazie. Ma, per il resto, vi parlerà la Superiora, dicendovi quello che vi sarà concesso sapere.»
Una scala elicoidale, che percorreva tutto il muro interno dell’edificio, portava alla sala del terzo piano. La stanza, rotonda e grande tutta quanta la cupola, era molto luminosa: si aprivano infatti nella parete otto finestre incorniciate da colonne ritorte, che gettavano sul pavimento, di marmo di (ebbene sì, sembrava proprio) Carrara, ombre eleganti e slanciate. Contro una parete era posto uno scanno, sul quale sedeva una sacerdotessa. Il libro chiuso che teneva sotto la mano sinistra, appoggiato al bracciolo del trono, era scritto in caratteri minuti e sinuosi, che sembravano arabi ma presentavano una comune legatura superiore. Con voce ultraterrena, che sembrava non provenire dalla sua bocca, iniziò a parlare rivolgendosi indistintamente ai due soldati.
«Il Collegio sacerdotale di Illa Diva non ha mai accettato uomini nel territorio da sé amministrato. Oggi mi è detto che un’armata ha osato avventurarsi nella nostra conca, ha posto le proprie tende nella foresta che protegge il nostro segreto…Non vi sarebbe stato concesso ciò, se non avessi visto e vedessi tuttora nere nubi di sventura calare su di noi. Ραεõώθζ, che stimo e ho già avuto piacere di conoscere, può esserci di aiuto, nonostante il vostro arrivo non abbia dissipato la cappa che il Fato ha posto sopra di noi. È bene che andiate dai vostri capi, e mettiate in guardia anche loro: non mi è ancora chiaro se la calamità sarà o meno circoscritta.
In quanto al ferito, vedremo di accudirlo. E ora forza, che il tempo va scarseggiando.»
Un’altra sacerdotessa li accompagnò in fretta ai loro cammelli. Partirono al trotto per la fitta macchia e, allo sbocco sul sentiero, non essendosi accorti del sopraggiungente Hexàmeron, gli andarono contro. Hexàmeron, alzatosi subito dopo, li osservò spaventati; li aveva già dati per morti.
Erano già spariti, svaniti nel fitto del bosco.
Raggiunto il resto dei soldati, si allontanarono rapidamente dal massiccio montuoso e presero a discendere lungo il fiume Choaspe, che scorreva là e si portava fino a Susa, prima di perdersi in paludi bituminose.
* Califfato di Damasco, confine settentrionale
[i] Raevótz
[ii] Arsôïn

giovedì 8 marzo 2007

Capitolo II - Ragnarok

II. Susae, in praefecti palatio*
Gli ambasciatori sasanidi erano appena usciti, ringraziando con inchini per la concessione del diritto d’asilo ai profughi dell’ex impero persiano. Gli Arabi, in tre anni, ne avevano causato il crollo.
Nel suo abito di seta, tanto fine da far invidia alla sartoria imperiale, Adriano Re, soddisfatto, beveva con il vino importato dalla Palestina.
Entrò, scintillante di ferro, lo Stratego di Susiana, comandante dell’esercito provinciale.
«Domine, faresti meglio a moderarti col vino straniero. Mi è stato comunicato che le vie commerciali con Gerusalemme sono interrotte. Abbiamo abbondante vino anche di produzione locale.»
«Mio caro Quinto, ho appena ricevuto gli ambasciatori di Yezdegerd. Abbiamo la collaborazione persiana su tutto il confine settentrionale. Vai e occupati di schierarli. Spero che quell’increscioso problema sia stato risolto…»
«In realtà, domine, c’è stata una modesta percentuale di danni collaterali, quando abbiamo attaccato quella carovana.»
«Non importa. Li avete presi tutti?»
Lo Stratego prese l’elmo che aveva in capo e se lo sfilò, portandoselo al fianco.
«No, Signore. Ci è sfuggito uno dei soldati.»
«L’ambasciatore è morto?»
«Sì, e la colpa è ricaduta sui predoni arabi. Credo che la situazione sia abbastanza rosea. Anche se Valente inviasse un esercito, non arriverebbe mai nei nostri territori. Ora vado a controllare le forze ex persiane della nostra armata. Vale.»


Quinto Fabio uscì, diritto e guardando avanti, dalla sala principale del palazzo del governatore. In confronto al Sacro Palazzo di Bisanzio, sembrava una catapecchia. Costruito in arenaria gialla, era più simile ad un forte che ad una reggia. Per ovviare a questo problema d’immagine, poco distante si stava costruendo un palazzo che fosse simile alla residenza dello Shah di Persia. Lo Stratego percorse la strada principale di Susa, in realtà poco più di una pista polverosa, che solo in parte si stava pavimentando. Tutta la città, un tempo la più fiorente dell’Impero Persiano, era regredita allo stato di caravanserraglio e ovunque fervevano i lavori per renderla degna capitale del Tema che si era reso indipendente.
La sede dello Stratego era un vero e proprio campo fortificato. Entrando, gli venne incontro un ufficiale dall’esotica divisa in cuoio borchiato.
«Parvo Cornua, comandante dei Caldei federati. Signore!»
«L’armamento regolare del nostro esercito non comprende né cuoio né borchie di bronzo. In battaglia se ne ricordi.»
«Signore, gli ufficiali persiani la stanno aspettando nella sala riunioni. Noi abbiamo problemi a sistemare gli elefanti da guerra.»
«Cornua, fa’ preparare qualche recinto. Non voglio essere disturbato.»

Concordate le modalità d’impiego dei Persiani, Quinto Fabio decise di controllare il confine occidentale del Tema. Alle tribù caldee era affidata la zona pianeggiante a sud, dove i loro temibili carri da guerra dispiegavano la loro potenza. Le forze regolari controllavano la parte più accidentata, dove più spesso si scatenavano tempeste di sabbia. A nord i Persiani già approntavano linee difensive fortificate.
*A Susa, nel palazzo del governatore

mercoledì 7 marzo 2007

Capitolo I - Ragnarok

I. Byzantii*

Le tribune rigurgitavano la folla plaudente, le strade dell’intorno erano invase da chi non aveva trovato posto nell’ippodromo. Le fazioni verde e azzurra, disperate, stavano già abbandonando i posti, mentre altri salivano le strette scale per prendere il loro posto. I fantini, dopo pochi giri percorsi a velocità folle, erano stati sbalzati fuori dalle quadrighe dallo smalto luccicante, facendo naufragare le speranze e le scommesse del popolino urbano.
I due cocchi ancora in gara, rosso e bianco, si fronteggiavano sul lungo rettilineo. Il conducente la quadriga bianca, con uno scarto improvviso, si porta all’interno della curva, tagliando la strada all’avversario, che arrancando si porta all’inseguimento. Il conto dei giri rimasti si accorcia, e il cocchio bianco è saldamente in testa. L’ultima curva un cavallo incespica, ma il fantino è bravo e rialza il mezzo. Con mezzo giro di vantaggio, la fazione bianca vince la corsa.
La folla in tripudio, poca rispetto alle decine di migliaia di spettatori, è l’unica a non rivolgere lo sguardo alla tribuna imperiale. L’imperatore si è alzato in piedi, e guarda con dispetto il giovane fantino vincitore. Da anni, la Casa Imperiale tifa rosso, e giammai nessuno aveva osato sconfiggerli. I sostenitori dei bianchi invadono il campo e circondano il vincitore, lo acclamano e lo portano in trionfo.
Tutta la città sembra diventata bianca; gente e tifosi espongono alle finestre lenzuoli e tovaglie di lino e di seta bianchi. La festa andrà avanti fino a notte fonda ma, intanto, la quadriga eburnea dell’imperatore, furioso, corre per le strade e i vicoletti di Bisanzio in direzione del Sacro Palazzo. Il foro di Teodosio, nella sua maestosa antichità, accoglie la folla dei festanti. Chi non si scosta al passaggio del basileus viene travolto.
Il Sacro Palazzo, con le sue mille cupole di marmo, le sue colonne striate d’oro, i suoi stendardi di porpora di Lidia, accoglie l’imperatore dei Romani Valente II. L’ira ne rende più fiero l’aspetto. La carnagione ramata e tesa, soprattutto intorno alle labbra larghe e strette, gli occhi di ghiaccio e i capelli biondi portati alla Unna, ossia rasati in parte e lasciati lunghi dietro la nuca. I più tradizionalisti, scandalizzati da questo affronto alle tradizioni romane, lo disprezzavano. Nel Sacro Palazzo non aveva sostenitori. La principessa che aveva sposato era fuggita con un fantino, giovane, della fazione bianca e vincitore. Da quel giorno neanche le corse all’ippodromo, che aveva affrontato da più giovane e che aveva continuato ad amare, lo rallegravano; anzi, quell’obbligo imperiale gli era venuto odioso.
La sua corte gli era lontana, non aveva fedeli né tra i generali né tra i dignitari.
Chi gli aveva voluto stare vicino, era stato allontanato perché in odore di complotto.
Sembrava che il Patriarca di Costantinopoli stesse tramando insieme al Papa di Roma contro l’Imperatore, e fu esiliato in Isauria, da dove sparì.
Valente II, arrivato nella sua sala del trono, fu subito avvicinato dal Capo di Gabinetto della sua amministrazione, Lilia Domna. La donna aveva avuto un ruolo importante nell’esautorazione del precedente imperatore, Quario Cesare, e nell’incoronazione del nuovo. Per questi meriti, si era guadagnata un importante ruolo di fiducia nella corte di Bisanzio, e amministrava, neanche troppo di nascosto, da sola l’intero dominio dei Romani.
Dopo aver accompagnato l’imperatore al trono ed essersi prostrata per baciargli il piede sinistro, iniziò ad aggiornarlo circa la situazione dei territori in Asia Minore.
«Il dominio dei Califfi arabi si è esteso anche in Siria e in Palestina, dove abbiamo perso eserciti e territori; l’Egitto è allo stremo. Rimane completamente isolato dal nostro territorio il già turbolento Tema di Susiana, basileus.»
«Mia cara Lilia, è forse possibile che Susiana resti indipendente? Non abbiamo notizie di Adriano da anni. È molto più probabile che sia già stato ucciso, il suo esercito disperso, la sua capitale data alle fiamme. In questo caso, pace all’anima sua…e un po’ meno a quella del suo Stratego, quel tal…»
«Quinto Fabio. No, credo abbiate ragione Voi.»
Valente si distese sul trono, sul punto di abbandonarsi al riposo, ma in quella gli fu annunciato l’arrivo di un messo dalla Susiana, che si gettò, lacero e sporco, ai suoi piedi.
«Vengo da Susa, basileus. Sono stato inviato per portare notizie dall’ultimo Tema d’Asia. Gli Arabi non sono arrivati ai confini, non c’è guerra in arrivo, ma il governatore, Adriano, si è nominato re: Adriano Re di Susiana; Quinto Fabio è stato nominato comandante dell’esercito, e già da mesi stanno svolgendo autonoma politica estera. Sono già scesi a patti con quanto rimane dell’Impero Persiano, per garantirsi mutua assistenza. Ma Ctesifonte è caduta e profughi sono già arrivati a Susa, dove Adriano ha posto la sua capitale.»
«I Sasanidi hanno distrutto i Parti. Gli Arabi già si sono sostituiti ai Sasanidi. Possiamo permettere che nostri sudditi vengano a formare un altro dei nostri nemici mortali? Ho ancora fiducia in Adriano. Come ti chiami, ragazzo?»
«Felix Felis, basileus»
«Felix, tornerai in Susiana e consegnerai nelle mani di Adriano questi ordini.» E, così dicendo, sigillò una lettera che Lilia Domna gli porgeva e la consegnò al messo.
«Sì, mio signore», disse Felix Felis uscendo.
Lilia Domna si avvicinò alle spalle di Valente, appoggiandovi sopra le mani.
«Mio signore, è mia convinzione il fatto che sia giusto cedere la Susiana»
Valente II, imperatore e basileus, si alzò dal trono, situtato tra due colonne di marmo rosso striato d’oro, raccolse la voce e disse: «Lilia! Hoc est. Ho ancora molto da fare in Susiana. E il santuario pagano di Illa Diva non può essere perso.»
«Basileus, mio signore, abbiamo nei nostri domini templi pagani? Perché non avete provveduto a distruggerli?», sbottò la donna. «Non avete forse distrutto ogni residuo di superstizione in Anatolia, in Siria e perfino in Egitto? Il santuario di Ammone non è stato raso al suolo? Ditemi di Illa Diva.»
Scocciato, l’imperatore rispose: «Non so niente. Neanche la sua posizione. L’unica cosa che so è che dovrebbe essere in Susiana. Ma, dei miei inviati, nessuno l’ha mai trovato.»
Detto questo, Valente II uscì dalla sala del trono per ritirarsi nei suoi appartamenti privati.
Nelle strade di Bisanzio, nel frattempo, si era scatenata la festa della fazione bianca. Il fantino, osannato dalle folle, aveva preferito però ritirarsi. Iohannes Pagno, dopo aver ricevuto la corona della vittoria e svariate richieste di matrimonio, si era coperto con un mantello e, non visto, aveva costeggiato rasente il muro la chiesa di Santa Sofia, fino a raggiungerne un’entrata posteriore. Di là era sceso nei sotterranei della città, portandosi fuori delle mura.
All’uscita del passaggio era stato portato un cavallo. Iohannes, in sella, si portò fino al limitare di una macchia che effondeva l’odore forte del rosmarino. Sceso, entrò a piedi tra i cespugli spinosi, chinando il capo per non impigliare i capelli nei bassi rami degli olivi. Al centro della macchia c’era una piccola radura. Quando vi fu entrato, si gettò ai piedi dell’uomo che lo attendeva
«Patriarca Ecumenico, quale gioia rivedervi! Perché mi avete fatto chiamare? Non sapete che è per voi pericoloso stare nell’Impero?»
«Iohannes, sono venuto a prenderti.» L’uomo, coperto da una cappa scura, rivelava solo la sottile linea delle labbra, mentre il volto gli era coperto da un cappuccio.«Partiamo per la Susiana. È importante.»
*A Bisanzio