mercoledì 28 marzo 2007

Capitolo VI - Ragnarok

VI. Hyrcaniā, ultra Thematis fines*
Erano partiti dalle steppe dell’Asia centrale, in direzione del bacino del Mediterraneo, in cerca di terre più ricche e di bottini da razziare. In realtà, dopo qualche mese di cammino, si erano stanziati ad est del Mare Ircano. Le tende erano disposte a semicerchio, intorno alle due baracche in cui vivevano i capi.
I Massageti erano guidati da due capi, il cui valore era stato provato in anni di razzie nei confronti delle carovane e dei villaggi più lontani di India e Cina.
I costumi di questi barbari erano rozzi. Il popolo non conosceva l’uso delle selle né l’agricoltura, e i loro due condottieri, Currus e Ierolma, non avevano né abiti né ricchezze, salvo un certo numero di capi di bestiame.
Dal punto di vista militare, non avevano la forza di impensierire l’esercito ben addestrato e organizzato della Susiana, ma l’impeto improvviso che avrebbe potuto colpire le impervie regioni di confine poteva cogliere di sorpresa un’armata non ancora ben stanziata. Per tre volte i Massageti avevano provato a violare il confine susiano, ma erano stati respinti dalle truppe persiane in forza all’esercito provinciale.
Quella notte stavano preparando un’ulteriore incursione.
Currus, tatuato su tutto il corpo e completamente rasato, sosteneva da ore, ubriacato con l’assenzio, che si sarebbe dovuto lanciare un attacco concentrato sulla riva del mare Ircano, dove le fortificazioni erano più deboli, ma dove comunque erano già stati respinti una volta, con grave strage di uomini e cavalli. Ierolma, che portava i capelli secondo l’uso tipico delle popolazioni mongole, opinava invece migliore l’uso dell’astuzia e del tradimento.
«Ho inviato, mesi fa, due schiavi che avevamo razziato in villaggi qui vicini, perché allacciassero rapporti d’amicizia con il generale persiano che comanda questo settore di confine. Una volta ottenuta la sua fiducia, per loro due dovrebbe essere facile farci passare il confine di nascosto.»
Questo era il piano di Ierolma, che, dopo lunghe discussioni, fu infine accettato.

Un manipolo scelto di cavalieri massageti partì al galoppo verso il confine; quando arrivò in vista della linea fortificata, con una fiaccola segnalarono la loro presenza.
Le sentinelle persiane se ne avvidero, ma scambiarono la fiamma tremolante, che sparì subito, per uno dei fuochi fatui che si accendevano dalle torbiere bituminose che circondavano il Mare Ircano. Si accorse invece della fiamma Χυξξίαδις, che svegliò Lepido Silvano. I due sgattaiolarono fuori, nella notte fredda, e raggiunsero una rupe da cui si aveva una vista su tutta la piana sopra la quale incombevano le fortificazioni susiane. Con una fiaccola, Lepido Silvano indicò una depressione nel terreno, dal quale si poteva giungere non visti sotto il vallo. I cavalieri massageti si portarono, non visti, nel punto indicato dalle due spie, scavalcarono il vallo aspettando che la sentinella, nel suo giro, passasse loro accanto per renderla inoffensiva. Nel frattempo, si avvicinava in silenzio il grosso delle forze massagete. Il piano era semplice: grazie all’effetto sorpresa, la prima incursione avrebbe spezzato la linea del confine, nella cui frattura si sarebbe inserito il resto della popolazione, con donne e bambini, per inoltrarsi nelle steppe settentrionali del Tema di Susiana.
Svegliato dal rumore del primo attacco, Cosroe, il generale persiano, fece uscire, nonostante fosse notte e non si vedesse nulla, il grosso degli arcieri e uno squadrone di elefanti da guerra. La lentezza delle manovre persiane, dovuta sia alla natura delle forze in campo sia all’oscurità, fece in modo che il grosso dei Massageti riuscisse a passare praticamente indenne in Susiana. Χυξξίαδις e Lepido Silvano, resisi conto che il loro tradimento sarebbe stato presto scoperto, essendo stata la prima azione di Cosroe andare a cercarli e non trovarli, si unirono quindi agli incursori barbari.

I Servizi di Sicurezza guidati da Ραευώθζ, che erano da poco giunti in Hyrcania secondo gli ordini dello Stratego, erano invece addestrati ai combattimenti notturni. Nel loro accampamento, qualche miglio dietro la linea del confine, furono svegliati dai rumori del combattimento, portati dal vento di Borea. Schierati in ordine di battaglia, videro il passaggio della testa delle truppe massagete da lontano, e piombarono sul centro della colonna in marcia. Le corazze in cuoio dei barbari non poterono niente contro le scimitarre di ferro arabo, e presto questi furono fermati dalle forze giunte dal loro fianco. Nel frattempo sopraggiunsero i soldati persiani, che erano riusciti a riorganizzarsi, che piombarono sulla retroguardia dei Massageti, in fuga, massacrandola.
Tra i prigionieri che furono catturati in quella notte, c’era Χυξξίαδις. Lepido Silvano, invece sembrava essere riuscito a fuggire.
Quando Cosroe passò in rassegna i prigionieri, non poté fare a meno di notare Χυξξίαδις, che invano cercava di coprirsi il volto.
«Con questa moneta paghi la mano che ti ha nutrito per mesi, vile traditore?»
Cosroe era infuriato, soprattutto perché aveva perso molti uomini valorosi, e non molto numeroso era il suo esercito. Si avventò sull’omiciattolo, che cercava invano di nascondersi.
Quando gli fu addosso e cercò di strangolarlo, Χυξξίαδις estrasse, con una rapida mossa, un corto pugnale.
Αρσωΐν, che osservava la rivista dei prigionieri per cercare informazioni sulla meta dei barbari, se ne avvide in tempo.
In una frazione di secondo, estrasse una freccia dalla faretra che portava sulla schiena, la infilò nel lungo arco e la scagliò.
Dopo una breve e tesissima corsa, la cuspide metallica penetrò le carni del barbaro poco sotto il mento.
Senza un sussulto né un rigurgito di sangue, Χυξξίαδις crollò a terra, morto.
Il volto segnato di Αρσωΐν brillò di determinazione, per un attimo. Amava la morte, e dispensarla.
Una volta tornato Αρσωΐν al suo battaglione, Ραευώθζ diede ordine di partire, per inseguire i barbari che avevano sconfinato ed erano sopravvissuti alla carneficina notturna.
* In Hyrcania, oltre i confini del Tema

lunedì 26 marzo 2007

Capitolo V - Ragnarok

V. Susae, Thematis Susianae capute*
Era quasi l’ora di pranzo quando le truppe dei Servizi di Sicurezza giunsero alle porte della città. Gli abitanti, scortili da lontano e credendoli predoni arabi giunti fino alle porte della città, si rifugiarono in casa sperando nell’arrivo di un esercito amico.
Contro le aspettative degli abitanti, ma secondo gli ordini ricevuti, il centinaio di soldati si accampò, mentre all’interno delle mura entrò solamente Ραευώθζ, che si diresse verso il Comando Supremo, per fare rapporto allo Stratego, Quinto Fabio.
Entrato, fu fatto accomodare, e gli fu offerto da bere finché fosse entrato Quinto Fabio. Questi arrivò, felice di rivedere il compagno d’armi che da diversi mesi era in missione.
«Sono molto lieto di rivederti, ma è questo il modo di presentarsi senza preavviso alle porte? La popolazione è terrorizzata dai tuoi soldati, e non posso fare a meno di capirli. Che fretta ti ha condotto qui?», esordì lo Stratego.
«Imperator, sono venuto all’improvviso per via di un vaticinio funesto.
Avevamo intercettato una missione diplomatica bizantina, diretta a Susa. Purtroppo, è stata intercettata poco prima da veri predoni arabi, che ne hanno massacrato la legazione portando via oggetti preziosi e, probabilmente, anche il sigillo imperiale. Abbiamo portato l’unico superstite al posto più vicino, il santuario di Illa Diva. Lo conosci?»
«Siamo in pochi a conoscerlo. È vero quanto si dice, che è abitato da feroci amazzoni?»
«Sembrerebbe di no. C’è un collegio sacerdotale femminile molto rigido riguardo alla presenza di uomini, ma hanno accolto il ferito. Il problema è che, quando la superiora mi ha parlato, mi ha annunciato che sta per avvenire una grande sciagura sul tempio di Illa Diva, e probabilmente anche sul nostro Tema. Per questo mi ha esortato a recarmi qui velocemente per annunciarlo. Ci sono problemi sui confini?»
«Non appare nulla di tutto ciò, almeno per ora. Ma i miei informatori all’estero parlano di movimento presso i Turchi, nelle steppe a nord-est dell’Hyrcania.»
«Imperator, chiedo dunque che mi sia affidata una missione in quella regione»
«Bene, Ραευώθζ, Scriverò al generale Cosroe, che controlla il nostro confine settentrionale, comunicandogli della vostra presenza. C’è altro?»
«Sì, il Bizantino sopravissuto aveva con sé una lettera. Eccola», disse, porgendo a Quinto Fabio un rotolo di pergamena con impresso il sigillo imperiale di Bisanzio. Poi uscì, allontanandosi con i suoi soldati dalla città.

Rimasto solo, Quinto Fabio prese ad esaminare la lettera. Era indirizzata ad Adriano Re, che si sarebbe accorto se lui l’avesse aperta, rompendone il sigillo.
Era un problema. Se fossero riusciti a salvare dai predoni il sigillo imperiale, avrebbe fabbricato una copia della lettera simile in tutto e per tutto all’originale. Ma se si preparavano insidie all’indipendenza del Tema, leggendo subito la missiva sarebbe potuto intervenire tempestivamente. Non potendo rischiare di perdere la fiducia del suo dominus, lo Stratego si portò quindi, attraverso l’unica strada decente di Susa (nel frattempo era stata pavimentata) al palazzo del governatore, sempre più piccolo in confronto all’incombente mole del palazzo in costruzione.

Adriano Re stava prendendo il pranzo in terrazza, quando gli fu introdotto Quinto Fabio recante la lettera.
Apertala in presenza del dominus, Quinto Fabio iniziò a leggerla.
«Noi Valente II Imperatore e Basileus dei Romani, rammaricato per gli sgarbi diplomatici subiti («gli abbiamo sterminato la legazione…»), chiediamo ad Adriano governatore di Susiana che riconosca la Nostra suditanza, com’è stato da quando il suo avo Claudio Brembano ha strappato ai Persiani il territorio della Susiana facendone Nostro Tema.
Chiediamo dunque che il qui presente ambasciatore, Nostro plenipotenziario, venga accolto con il rispetto necessario al suo rango. Richiediamo ergo che siate ridotti
nostrā in potestate come è sempre stato.
Valente II
Basileus»
«Dalla lettera non si ricava nessuna informazione circa un possibile attacco ai nostri territori», osservò il Re.
«È vero, dominus, ma noi conosciamo bene la situazione politica a Bisanzio. Se l’imperatore ha scritto questo, e io sono portato a ritenere che sia scritto di suo pugno, giacché posso far notare un errore di ortografia, e Valente era un modesto atleta, prima di essere acclamato imperatore dal popolo, allora significa che quasi tutta la corte pensa il contrario, e cioè che la via diplomatica con noi è sprecata.»
«Capisco. Ma non tutte le notizie sono cattive, Quinto. È arrivato oggi, dopo un lungo viaggio che l’ha portato in Armenia, il mio Consigliere Capo, che ha, come mi ha detto, qualcosa da riferirti. Ti attende alla sua casa.»
Con queste parole, Adriano Re interruppe la conversazione.
Quinto Fabio, allora, curioso per l’ultima frase pronunciata dal re, andò direttamente alla casa del Consigliere Capo, Panatto Retore, che si trovava in una via laterale della strada principale.
La casa di Panatto Retore era una modesta costruzione di arenaria, come il palazzo del governatore, ad un piano solo. Dopo l’atrio si entrava in un piccolo porticato, sotto il quale stava seduto, leggendo un libro in sanscrito, il dignitario.
Come al solito cordialissimo, Panatto Retore esordì lodando il testo che stava leggendo.
«Induismo…grande religione, nonostante sia falsa. Questi testi indicano una concezione del mondo molto singolare, ma suggestiva. Ma noi cristiani…», e sarebbe andato avanti con la sua omelia se Quinto Fabio non l’avesse interrotto.
«Mi avete fatto chiamare, nevvero?»
«Sì, mio caro Fabio. Ma prima di dirti quello per cui ti ho convocato, giurerai di non rivelarlo a nessuno se non espressamente costretto, neanche al Re.»
«Quello che mi chiedete è molto singolare, e potrebbe far dubitare della mia fedeltà nei confronti di Adriano, nonché della vostra. Ma l’ultima volta che vi ho ascoltato, mi è stato molto utile. Giuro.»
Panatto Retore, visibilmente soddisfatto, si accomodò meglio sul triclinio per parlare stando più a proprio agio.
«Orbene, non sono andato in Armenia. Ricordi quando sono arrivato a Susa, diversi anni fa? Erano più o meno i giorni in cui Valente II riscuoteva più ostilità da parte dei suoi dignitari; la sua corte era scandalizzata per la moda alla Unna che stava diffondendo; il Patriarca cercava di trovare un accordo con il Papa in risposta all’eresia monofisita che si diffondeva in Oriente e nella stessa corte imperiale, e fu esiliato. Come ho scoperto sul tomo che stavo esaminando quando è entrato, esiste, forse in Susina, forse in qualche altro luogo di qua del Tigri, una località particolare dalle antichissime origini, che nasconderebbe qualche particolare rivelazione sulla natura divina. Ho cercato, durante i miei frequenti viaggi, questo luogo, ma non l’ho mai trovato. Penso sia nascosto molto bene, ma ritengo anche sia impossibile che possa essere sfuggito ai tuoi Servizi di Sicurezza. Quindi, in modo celato o meno, dovremmo collaborare per trovarlo.»
«Non comprendo una cosa. Perché dovrebbe essere vostro e mio interesse trovarlo? Non è affar nostro la ricerca della natura divina, mio perlomeno. Ma voi?»
«È mio interesse, in quanto sono da anni impegnato in un’accesa disputa coi monofisiti bizantini. Se questo testo», disse, indicando il grosso volume scritto in sanscrito, «è autentico, possiamo affermare che la Rivelazione monoteistica giudeo-cristiana non è parto delle popolazioni semitiche, come gli Ebrei, ma viene portata dalle popolazioni indoeuropee di stirpe ariana, tra i quali ci sono i Persiani che hanno regnato per secoli sui nostri territori. Ricordo, anche, che la fede degli Ebrei si è confermata nel pieno monoteismo dopo l’esilio di Babilonia, dal quale furono liberati, appunto dal primo gran re dei Persiani, Ciro il Grande; non è da escludere che ne abbiano assorbito alcune credenze. E noi, volenti o nolenti, sia che siamo genti romane o, come più probabile, persiane, traiamo origine dalla stessa grande cultura. Io intendo dimostrare che esiste un santuario risalente al periodo seleucide, o anche anteriore, che possegga elementi riconducibili alla fede o al culto cristiani. Credo sia presente una casta di tipo sacerdotale esclusivamente femminile, come evinco dai riferimenti di matrice monoteista nel culto vestale, analogo al quale dovrebbe essere il culto del santuario di cui sono in cerca».
Alle parole “esclusivamente femminile”, gli occhi di Quinto Fabio brillarono.
«Forse potrei darvi qualche informazione. Ma il problema persiste: a me, che ne viene?».
«È attestata, a partire dai primissimi tempi del santuario, la presenza di un immenso tesoro in oggetti votivi.
* A Susa, capitale del Tema di Susiana

martedì 20 marzo 2007

Capitolo IV - Ragnarok

IV. Hyrcaniā, septentrionale fine Susianae Thematis*

Il poco che era rimasto dell’esercito persiano, dopo che gli Arabi ne avevano causato il tracollo, si era schierato nei territori che gli erano stati assegnati da Quinto Fabio.
I comandanti persiani, che già avevano dovuto concedere molto agli antichi nemici, come la rinuncia allo Zoroastrismo religione di Stato, non avevano più l’autorità somma sulle loro truppe; i loro mastodontici pachidermi, che da secoli terrorizzavano tutti gli eserciti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, erano ora al servizio del signore del piccolo (una volta) Tema di Susiana.
Cosroe, generale persiano, guardava ora con desolazione il lembo di territorio che doveva controllare. Un altopiano insidioso ed arido, che degradava verso il lontano lago salato, attraversato solo da una via carovaniera.
Gli Arabi, non paghi delle loro recenti conquiste avrebbero certo portato le proprie armate in questa direzione, per cercare di controllare la vitale via della seta. Il suo lungo abito, che gli cadeva fino ai piedi, si impolverava lungo i camminamenti di guardia, in posizione sopraelevata, che costeggiavano per un lungo tratto la pista. Le carovane, un tempo relativamente frequenti, erano drasticamente diminuite di numero e aumentate di consistenza, giacché nessuno più si fidava; i mercanti cristiani erano attaccati dai predoni arabi, e i mercanti arabi erano fermati dall’esercito della Susiana, che non ne permetteva il transito.
La notte iniziava a tendere all’alba, quando due figure attraversarono furtivamente la pista. La sentinella, scortele, avvisò subito l’ufficiale di guardia. Dopo cinque minuti erano già state catturate e condotte dal generale Cosroe.
Erano una singolare coppia d’uomini. Il primo sembrava portare i segni di tutte le epidemie di vaiolo del mondo. I segni che gli solcavano il volto erano tanto profondi, tanto irregolare il profilo delle sue gote che a difficoltà se ne scorgevano i connotati, salvo il grosso naso prominente e le profonde occhiaie che ne cerchiavano gli occhi. L’altro era più alto, ma la sua schiena non era in grado di stare in posizione eretta. Aveva una faccia da satiro, con piccoli occhietti e capelli incolti, e una grossa gobba sulla schiena.
Furono interrogati.
Il secondo, che pure pareva più intelligente, non era in grado di capire la lingua, né il persiano usato dai soldati che l’avevano catturato né il greco o il latino con cui si sforzava di farsi intendere il generale.
L’altro, invece, masticava qualche parola di Persiano.
«È vietato» scandiva Cosroe «introdursi nel Tema di Susiana senza visto e, come nel vostro caso, documenti. Chi siete?»
Il primo, con una voce gutturale e sgradevole, rispose sostenendo che erano due Ircani fuggiti dal proprio paese natio. Lui si chiamava Χυξξίαδις[i]. Il suo nome era greco per il fatto che suoi parenti venivano dall’Ellade, ed aveva imparato un po’ il Persiano perché era stato fatto schiavo dai Persiani al tempo della conquista da parte loro dell’Hyrcania, nella quale viveva. L’altro era invece senza nome. L’aveva trovato in un caravanserraglio, dove presumibilmente viveva facendo divertire i mercanti. Anche in quel momento, infatti, stava mimando atti osceni suscitando l’ilarità della truppa.
«Selvaggio e “simpatico”», disse Cosroe con una vena di disprezzo «ti do io il nome che ti meriti, Lepido Silvano».
I due “clandestini” rimasero nel campo di Cosroe, adibiti a funzioni servili, vivendo in relativa tranquillità.
* In Hyrcania, confine settentrionale del Tema di Susiana
[i] pr. Cuxxiadis

giovedì 15 marzo 2007

Capitolo III - Ragnarok

III. In regno Damasceni chalifi, septentrionale fine*

Dall’alto di una rupe, tre uomini a cavallo di cammelli osservavano la piana sottostante, spazzata dal forte vento d’occidente. In qualsiasi direzione si guardasse, non si scorgeva anima viva. La pista che congiungeva Susa con Antiochia e Bisanzio passava sotto di loro, e si riconosceva per il colore più chiaro delle rocce, mentre intorno radi cespugli e pietraie occupavano la distesa arida. I tre uomini, interamente coperti da una veste, nera come il turbante, portavano al fianco una scimitarra e, dietro la schiena, arco e faretra. Quello dei tre che si trovava in posizione più avanzata, schermando la luce del sole con la mano, scrutava ripetutamente il tracciato della pista, come aspettando qualcuno.
Da Occidente, in lontananza, iniziò a sollevarsi un polverone, che avanzava lentamente. Dopo un’ora di attesa, la carovana si era portata al di sotto dei tre.
In quel momento, all’improvviso, risuonò un lugubre suono di corni, e da dietro le dune e i massi che si trovavano alla base della rupe uscì una cinquantina di uomini, vestiti di nero come quelli che sovrastavano la scena. Con le scimitarre sguainate si lanciarono contro la carovana, che era scortata da un esiguo numero di soldati.
«Comandante! Quelli non sono dei nostri!».
«Questo c’intralcerà non poco. Avremmo dovuto fermare la carovana, ma ora non è più possibile.»
Ραευώθζ [i], il comandante, ordinò ai suoi uomini di intervenire e di disperdere i predoni. Irruppero allora un centinaio di uomini in nero, che attaccarono battaglia con gli altri. Purtroppo, gran parte della carovana era già stata distrutta, e gli stessi predoni continuarono parte del loro massacro senza accorgersi del pericolo che si stava riversando su di loro.
Dopo dieci minuti, durante i quali le lame s’incrociarono e colpirono, i predoni arabi erano stati messi in fuga. Gli ufficiali si riunirono, scoprendosi i volti.
«Non erano questi i piani, comandante. Abbiamo perso qualche uomo.»
«Ora non è importante. Ci sono sopravvissuti tra i mercanti?», chiese Ραευώθζ.
Prese la parola un giovane ufficiale, che comunicò: «Non erano mercanti, comandante. Gli armati portavano le insegne bizantine. Si trattava di una missione diplomatica. C’è solo un sopravvissuto, pare l’ambasciatore.»
Le sue condizioni erano disperate. Fu medicato dall’infermiere, che premette affinché fosse portato in qualche posto sicuro e riparato, dove potesse essere curato a lungo. Facilissimo, in mezzo al deserto. La colonna si mise quindi in marcia, alla ricerca di un posto per portare il ferito. Ραεõώθζ puntò verso nord, e in qualche ora superò un’oasi e portandosi verso un gruppo montuoso. La vegetazione si faceva meno stentata, e le cime erano coperte di palmeti. Superata una strettissima gola, le cui pareti si innalzavano perpendicolari e invase da bassa vegetazione, fecero l’ingresso in una piccola conca riparata dall’esterno, dalla ridente vegetazione che circondava un ameno laghetto. Su un isolotto al centro del laghetto sorgeva un piccolo tempio in marmo azzurro.
«Signori, il famoso santuario di Illa Diva.»
Dal santuario, che si specchiava sulle acque calme del lago, uscì una figura in vesti bianche. Dopo aver osservato per qualche attimo i primi uomini che dalla gola sboccavano nella conca, rientrò nel tempio. Otto colonne in stile ionico reggevano il suo timpano triangolare, nel quale, scolpito in alabastro, campeggiava un gruppo scultoreo. Il podio sul quale il tempio reggeva era finemente scolpito di donne in processione, mentre una nuvola d’incenso aleggiava nei pressi dell’ingresso.
Il primo ufficiale Αρσωΐν[ii], portatosi accanto al comandante, gli chiese: «Comandante, non siamo dove ha detto, mi auguro…Le leggende dicono che nessuno degli uomini che ha cercato il santuario di Illa Diva è mai tornato vivo, e noi siamo tutti uomini. Qualcuno parla delle leggendarie amazzoni, che si sarebbero ritirate su questi monti mille anni fa, note per la loro attitudine a sterminare i maschi.» La sua giovane età, mostrata dagli occhi limpidi e trasparenti, contrastava con i segni profondi di un brutto vaiolo. Una goccia di sudore gli solcava la guancia, tremante per un tic nervoso. Era paura, quella che Ραευώθζ gli leggeva in volto e sulle mani, tremanti? Paura. Avessero saputo, i suoi soldati, la verità sul tempio, forse si sarebbero già dispersi per i boschi, cercando sollazzo e riposo. Tenendoli uniti, contava avrebbero mantenuto la disciplina anche in qualsiasi situazione.
Inoltratisi nel fitto della macchia, circondati dai versi di mille animali, gli uomini tremavano sotto il nero dei turbanti. Il sentiero girava intorno al lago, tra bassi cespugli di fiori odorosi e piante da frutto; una natura da giardino dell’Eden, che se non avesse nascosto insidie, sarebbe stata da godere fino all’ultimo respiro.
Si parò loro davanti un uomo. Una veste bianca e sottile ne copriva a malapena torace e cosce. Una stretta cintura gli cingeva i fianchi, e occhi da bambino guardavano i guerrieri, non spaventati ma stupiti, come se non avessero mai visto altri uomini.
Con voce sottile si rivolse al primo della fila, Ραευώθζ: «Io sono Hexàmeron. Chi siete voi, forestieri?»
«Siamo soldati e portiamo un ferito. Portaci all’Illius Ninfeo.», ordinò questi.
Allarmato, Hexàmeron si coprì il volto, rispondendo «Non è possibile, signore. È luogo proibito»
«C’è luogo interdetto a molti, ma spalancato a pochi. Bada, se vuoi salva la vita…» minacciò il comandante.
Il giovane, che non aveva più di vent’anni, si mostrò titubante ma, alla fine, cedette, e decise di accompagnare Ραευώθζ, Αρσωΐν e il ferito all’Illius Ninfeo.
La costruzione, in pietra rossa, si trovava nascosta nel più fitto del bosco. Una cupola semisferica, era retta da una costruzione dodecagonale alla quale erano addossati archi rampanti che scendevano sul corpo di base, formato da un blocco principale quadrato circondato da atri e porticati ombrosi. Nella cupola e nel corpo dodecagonale si aprivano finestre, velate da sottili tende di lino, mentre il rumore di numerose fontane riempiva l’aria. Hexàmeron, non appena fu in vista della cupola rossa, fuggì nel folto della macchia. Αρσωΐν, vedendo il giovane fuggire, fece per girare il cammello, ma fu fermato dal suo comandante con un cenno. Proseguirono quindi, trascinando la barella su cui avevano trasportato il presunto ambasciatore di Bisanzio. Quando uscirono dal bosco, trovandosi in un prato raso con cura, nel quale da una fontana sgorgava l’acqua che percorreva un ruscelletto per dirigersi in direzione del lago, Αρσωΐν smontò dalla sua cavalcatura e prese con sé anche quella di Ραευώθζ, che si era diretto, appiedato, in direzione del porticato.
Da dietro una grossa colonna di marmo rosso, un lieve soffio di vento mostrò il lembo di una veste bianca. Il suo proprietario, appena si avvide che non era completamente celato, si strinse contro la pietra, chiedendo, con un filo di voce: «Chi è là, stranieri?»
Il comandante si sciolse il turbante, mostrando lunghi capelli neri.
«Sono Ραευώθζ, comandante dei Servizi di Sicurezza del Tema di Susa. Mostratevi!»
E, così dicendo, gettò l’arco, la faretra e la scimitarra al suolo, intimando sottovoce ad Αρσωΐν di fare altrettanto.
Da dietro la colonna, allora, emerse una figura femminile, coi lunghi capelli, castani, al vento, vestita in modo simile ad Hexàmeron, sebbene si notasse che la qualità del filato e del taglio erano molto superiori.
Chinando il capo, per non incrociare lo sguardo di Ραεõώθζ, disse: «Stranieri, voi non dovreste essere qui. È molto grave sfidare Illa Diva, nostra guida.» Poi si avvide del ferito, che con bassi gemiti si lamentava per le sue ferite. Estrasse un sistro, che portava alla cintura, e il suo suono celestino attirò altre donne, che raccolsero il ferito portandolo all’interno del Ninfeo.
«Attendete qui, potreste essere ammessi alla presenza della nostra superiora»
Dopo qualche minuto, durante il quale il giovane Αρσωΐν riprese un po’ di colore, giacché non era stato fatto a pezzi come s’aspettava, tornò la donna, che introducendoli nel Ninfeo e portandoli nella cupola, spiegò loro un poco del luogo in cui si trovavano.
«Questo è il Santuario di Illa Diva. Noi siamo qui al suo servizio, che si svolge nel Tempio che avete visto. Ma interdetto è l’accesso agli uomini. Un tempo accorrevano qua donne da tutta la Media, chiedendo grazie. Ma, per il resto, vi parlerà la Superiora, dicendovi quello che vi sarà concesso sapere.»
Una scala elicoidale, che percorreva tutto il muro interno dell’edificio, portava alla sala del terzo piano. La stanza, rotonda e grande tutta quanta la cupola, era molto luminosa: si aprivano infatti nella parete otto finestre incorniciate da colonne ritorte, che gettavano sul pavimento, di marmo di (ebbene sì, sembrava proprio) Carrara, ombre eleganti e slanciate. Contro una parete era posto uno scanno, sul quale sedeva una sacerdotessa. Il libro chiuso che teneva sotto la mano sinistra, appoggiato al bracciolo del trono, era scritto in caratteri minuti e sinuosi, che sembravano arabi ma presentavano una comune legatura superiore. Con voce ultraterrena, che sembrava non provenire dalla sua bocca, iniziò a parlare rivolgendosi indistintamente ai due soldati.
«Il Collegio sacerdotale di Illa Diva non ha mai accettato uomini nel territorio da sé amministrato. Oggi mi è detto che un’armata ha osato avventurarsi nella nostra conca, ha posto le proprie tende nella foresta che protegge il nostro segreto…Non vi sarebbe stato concesso ciò, se non avessi visto e vedessi tuttora nere nubi di sventura calare su di noi. Ραεõώθζ, che stimo e ho già avuto piacere di conoscere, può esserci di aiuto, nonostante il vostro arrivo non abbia dissipato la cappa che il Fato ha posto sopra di noi. È bene che andiate dai vostri capi, e mettiate in guardia anche loro: non mi è ancora chiaro se la calamità sarà o meno circoscritta.
In quanto al ferito, vedremo di accudirlo. E ora forza, che il tempo va scarseggiando.»
Un’altra sacerdotessa li accompagnò in fretta ai loro cammelli. Partirono al trotto per la fitta macchia e, allo sbocco sul sentiero, non essendosi accorti del sopraggiungente Hexàmeron, gli andarono contro. Hexàmeron, alzatosi subito dopo, li osservò spaventati; li aveva già dati per morti.
Erano già spariti, svaniti nel fitto del bosco.
Raggiunto il resto dei soldati, si allontanarono rapidamente dal massiccio montuoso e presero a discendere lungo il fiume Choaspe, che scorreva là e si portava fino a Susa, prima di perdersi in paludi bituminose.
* Califfato di Damasco, confine settentrionale
[i] Raevótz
[ii] Arsôïn

giovedì 8 marzo 2007

Capitolo II - Ragnarok

II. Susae, in praefecti palatio*
Gli ambasciatori sasanidi erano appena usciti, ringraziando con inchini per la concessione del diritto d’asilo ai profughi dell’ex impero persiano. Gli Arabi, in tre anni, ne avevano causato il crollo.
Nel suo abito di seta, tanto fine da far invidia alla sartoria imperiale, Adriano Re, soddisfatto, beveva con il vino importato dalla Palestina.
Entrò, scintillante di ferro, lo Stratego di Susiana, comandante dell’esercito provinciale.
«Domine, faresti meglio a moderarti col vino straniero. Mi è stato comunicato che le vie commerciali con Gerusalemme sono interrotte. Abbiamo abbondante vino anche di produzione locale.»
«Mio caro Quinto, ho appena ricevuto gli ambasciatori di Yezdegerd. Abbiamo la collaborazione persiana su tutto il confine settentrionale. Vai e occupati di schierarli. Spero che quell’increscioso problema sia stato risolto…»
«In realtà, domine, c’è stata una modesta percentuale di danni collaterali, quando abbiamo attaccato quella carovana.»
«Non importa. Li avete presi tutti?»
Lo Stratego prese l’elmo che aveva in capo e se lo sfilò, portandoselo al fianco.
«No, Signore. Ci è sfuggito uno dei soldati.»
«L’ambasciatore è morto?»
«Sì, e la colpa è ricaduta sui predoni arabi. Credo che la situazione sia abbastanza rosea. Anche se Valente inviasse un esercito, non arriverebbe mai nei nostri territori. Ora vado a controllare le forze ex persiane della nostra armata. Vale.»


Quinto Fabio uscì, diritto e guardando avanti, dalla sala principale del palazzo del governatore. In confronto al Sacro Palazzo di Bisanzio, sembrava una catapecchia. Costruito in arenaria gialla, era più simile ad un forte che ad una reggia. Per ovviare a questo problema d’immagine, poco distante si stava costruendo un palazzo che fosse simile alla residenza dello Shah di Persia. Lo Stratego percorse la strada principale di Susa, in realtà poco più di una pista polverosa, che solo in parte si stava pavimentando. Tutta la città, un tempo la più fiorente dell’Impero Persiano, era regredita allo stato di caravanserraglio e ovunque fervevano i lavori per renderla degna capitale del Tema che si era reso indipendente.
La sede dello Stratego era un vero e proprio campo fortificato. Entrando, gli venne incontro un ufficiale dall’esotica divisa in cuoio borchiato.
«Parvo Cornua, comandante dei Caldei federati. Signore!»
«L’armamento regolare del nostro esercito non comprende né cuoio né borchie di bronzo. In battaglia se ne ricordi.»
«Signore, gli ufficiali persiani la stanno aspettando nella sala riunioni. Noi abbiamo problemi a sistemare gli elefanti da guerra.»
«Cornua, fa’ preparare qualche recinto. Non voglio essere disturbato.»

Concordate le modalità d’impiego dei Persiani, Quinto Fabio decise di controllare il confine occidentale del Tema. Alle tribù caldee era affidata la zona pianeggiante a sud, dove i loro temibili carri da guerra dispiegavano la loro potenza. Le forze regolari controllavano la parte più accidentata, dove più spesso si scatenavano tempeste di sabbia. A nord i Persiani già approntavano linee difensive fortificate.
*A Susa, nel palazzo del governatore

mercoledì 7 marzo 2007

Capitolo I - Ragnarok

I. Byzantii*

Le tribune rigurgitavano la folla plaudente, le strade dell’intorno erano invase da chi non aveva trovato posto nell’ippodromo. Le fazioni verde e azzurra, disperate, stavano già abbandonando i posti, mentre altri salivano le strette scale per prendere il loro posto. I fantini, dopo pochi giri percorsi a velocità folle, erano stati sbalzati fuori dalle quadrighe dallo smalto luccicante, facendo naufragare le speranze e le scommesse del popolino urbano.
I due cocchi ancora in gara, rosso e bianco, si fronteggiavano sul lungo rettilineo. Il conducente la quadriga bianca, con uno scarto improvviso, si porta all’interno della curva, tagliando la strada all’avversario, che arrancando si porta all’inseguimento. Il conto dei giri rimasti si accorcia, e il cocchio bianco è saldamente in testa. L’ultima curva un cavallo incespica, ma il fantino è bravo e rialza il mezzo. Con mezzo giro di vantaggio, la fazione bianca vince la corsa.
La folla in tripudio, poca rispetto alle decine di migliaia di spettatori, è l’unica a non rivolgere lo sguardo alla tribuna imperiale. L’imperatore si è alzato in piedi, e guarda con dispetto il giovane fantino vincitore. Da anni, la Casa Imperiale tifa rosso, e giammai nessuno aveva osato sconfiggerli. I sostenitori dei bianchi invadono il campo e circondano il vincitore, lo acclamano e lo portano in trionfo.
Tutta la città sembra diventata bianca; gente e tifosi espongono alle finestre lenzuoli e tovaglie di lino e di seta bianchi. La festa andrà avanti fino a notte fonda ma, intanto, la quadriga eburnea dell’imperatore, furioso, corre per le strade e i vicoletti di Bisanzio in direzione del Sacro Palazzo. Il foro di Teodosio, nella sua maestosa antichità, accoglie la folla dei festanti. Chi non si scosta al passaggio del basileus viene travolto.
Il Sacro Palazzo, con le sue mille cupole di marmo, le sue colonne striate d’oro, i suoi stendardi di porpora di Lidia, accoglie l’imperatore dei Romani Valente II. L’ira ne rende più fiero l’aspetto. La carnagione ramata e tesa, soprattutto intorno alle labbra larghe e strette, gli occhi di ghiaccio e i capelli biondi portati alla Unna, ossia rasati in parte e lasciati lunghi dietro la nuca. I più tradizionalisti, scandalizzati da questo affronto alle tradizioni romane, lo disprezzavano. Nel Sacro Palazzo non aveva sostenitori. La principessa che aveva sposato era fuggita con un fantino, giovane, della fazione bianca e vincitore. Da quel giorno neanche le corse all’ippodromo, che aveva affrontato da più giovane e che aveva continuato ad amare, lo rallegravano; anzi, quell’obbligo imperiale gli era venuto odioso.
La sua corte gli era lontana, non aveva fedeli né tra i generali né tra i dignitari.
Chi gli aveva voluto stare vicino, era stato allontanato perché in odore di complotto.
Sembrava che il Patriarca di Costantinopoli stesse tramando insieme al Papa di Roma contro l’Imperatore, e fu esiliato in Isauria, da dove sparì.
Valente II, arrivato nella sua sala del trono, fu subito avvicinato dal Capo di Gabinetto della sua amministrazione, Lilia Domna. La donna aveva avuto un ruolo importante nell’esautorazione del precedente imperatore, Quario Cesare, e nell’incoronazione del nuovo. Per questi meriti, si era guadagnata un importante ruolo di fiducia nella corte di Bisanzio, e amministrava, neanche troppo di nascosto, da sola l’intero dominio dei Romani.
Dopo aver accompagnato l’imperatore al trono ed essersi prostrata per baciargli il piede sinistro, iniziò ad aggiornarlo circa la situazione dei territori in Asia Minore.
«Il dominio dei Califfi arabi si è esteso anche in Siria e in Palestina, dove abbiamo perso eserciti e territori; l’Egitto è allo stremo. Rimane completamente isolato dal nostro territorio il già turbolento Tema di Susiana, basileus.»
«Mia cara Lilia, è forse possibile che Susiana resti indipendente? Non abbiamo notizie di Adriano da anni. È molto più probabile che sia già stato ucciso, il suo esercito disperso, la sua capitale data alle fiamme. In questo caso, pace all’anima sua…e un po’ meno a quella del suo Stratego, quel tal…»
«Quinto Fabio. No, credo abbiate ragione Voi.»
Valente si distese sul trono, sul punto di abbandonarsi al riposo, ma in quella gli fu annunciato l’arrivo di un messo dalla Susiana, che si gettò, lacero e sporco, ai suoi piedi.
«Vengo da Susa, basileus. Sono stato inviato per portare notizie dall’ultimo Tema d’Asia. Gli Arabi non sono arrivati ai confini, non c’è guerra in arrivo, ma il governatore, Adriano, si è nominato re: Adriano Re di Susiana; Quinto Fabio è stato nominato comandante dell’esercito, e già da mesi stanno svolgendo autonoma politica estera. Sono già scesi a patti con quanto rimane dell’Impero Persiano, per garantirsi mutua assistenza. Ma Ctesifonte è caduta e profughi sono già arrivati a Susa, dove Adriano ha posto la sua capitale.»
«I Sasanidi hanno distrutto i Parti. Gli Arabi già si sono sostituiti ai Sasanidi. Possiamo permettere che nostri sudditi vengano a formare un altro dei nostri nemici mortali? Ho ancora fiducia in Adriano. Come ti chiami, ragazzo?»
«Felix Felis, basileus»
«Felix, tornerai in Susiana e consegnerai nelle mani di Adriano questi ordini.» E, così dicendo, sigillò una lettera che Lilia Domna gli porgeva e la consegnò al messo.
«Sì, mio signore», disse Felix Felis uscendo.
Lilia Domna si avvicinò alle spalle di Valente, appoggiandovi sopra le mani.
«Mio signore, è mia convinzione il fatto che sia giusto cedere la Susiana»
Valente II, imperatore e basileus, si alzò dal trono, situtato tra due colonne di marmo rosso striato d’oro, raccolse la voce e disse: «Lilia! Hoc est. Ho ancora molto da fare in Susiana. E il santuario pagano di Illa Diva non può essere perso.»
«Basileus, mio signore, abbiamo nei nostri domini templi pagani? Perché non avete provveduto a distruggerli?», sbottò la donna. «Non avete forse distrutto ogni residuo di superstizione in Anatolia, in Siria e perfino in Egitto? Il santuario di Ammone non è stato raso al suolo? Ditemi di Illa Diva.»
Scocciato, l’imperatore rispose: «Non so niente. Neanche la sua posizione. L’unica cosa che so è che dovrebbe essere in Susiana. Ma, dei miei inviati, nessuno l’ha mai trovato.»
Detto questo, Valente II uscì dalla sala del trono per ritirarsi nei suoi appartamenti privati.
Nelle strade di Bisanzio, nel frattempo, si era scatenata la festa della fazione bianca. Il fantino, osannato dalle folle, aveva preferito però ritirarsi. Iohannes Pagno, dopo aver ricevuto la corona della vittoria e svariate richieste di matrimonio, si era coperto con un mantello e, non visto, aveva costeggiato rasente il muro la chiesa di Santa Sofia, fino a raggiungerne un’entrata posteriore. Di là era sceso nei sotterranei della città, portandosi fuori delle mura.
All’uscita del passaggio era stato portato un cavallo. Iohannes, in sella, si portò fino al limitare di una macchia che effondeva l’odore forte del rosmarino. Sceso, entrò a piedi tra i cespugli spinosi, chinando il capo per non impigliare i capelli nei bassi rami degli olivi. Al centro della macchia c’era una piccola radura. Quando vi fu entrato, si gettò ai piedi dell’uomo che lo attendeva
«Patriarca Ecumenico, quale gioia rivedervi! Perché mi avete fatto chiamare? Non sapete che è per voi pericoloso stare nell’Impero?»
«Iohannes, sono venuto a prenderti.» L’uomo, coperto da una cappa scura, rivelava solo la sottile linea delle labbra, mentre il volto gli era coperto da un cappuccio.«Partiamo per la Susiana. È importante.»
*A Bisanzio

lunedì 5 marzo 2007

Prologo - Ragnarok

Προλόγος*

Un leggero vento Africo rinfrescava l’isolata valle. Le cime degli alberi ondeggiavano leggermente accarezzate dalla brezza, i mille animali della foresta lietamente rumoreggiavano. Le fontane che circondavano il ninfeo zampillavano un’acqua fresca e cristallina, che scorreva in un piccolo ruscello trasparente in direzione dell’ameno laghetto.
La luce del sole penetrava nella valle, ma non allontanava la frescura. Un ragazzo attraversò di corsa una radura, sulle rive del lago, facendo alzare in volo uno stormo di uccelli multicolori.
Al centro del lago c’era una piccola isola. Su una breve spiaggetta era ormeggiata un’imbarcazione a remi, che poteva ospitare al massimo due persone. A non più di quindici metri dalla spiaggia, sorgeva la costruzione di un raffinatissimo tempio, di stile classico. Il podio su cui sorgeva era scolpito di donne in processione, il frontone portava un gruppo scultoreo d’alabastro. Nei pressi della porta, aperta, aleggiava una nube d’incenso.
All’interno del tempio ardeva un fuoco vivo, in un braciere d’argento. I suoi riflessi illuminavano a sprazzi l’interno del santuario, che conteneva tesori e una piccola biblioteca. All’interno di una nicchia risplendeva una statua, rappresentante una figura femminile. Una sacerdotessa si adoperava intorno al braciere, ravvivando la fiamma. Si alzò improvviso un colpo di vento, che, con un tonfo, sbatté la porta del tempio, chiudendola, e facendo cadere il buio sulla cella.
«Pessimo presagio.», disse la donna.
*Prologo

Dedica - Ragnarok

Si flos, peccarem te legente
Si petra, fulgeres adamante
Si femina, tuo visu me subigeres
At diva

Se tu fossi un fiore, peccherei cogliendoti
Se tu fossi una pietra, risplenderesti di diamante
Se tu fossi una donna, mi sottometteresti col tuo volto
Ma sei una dea.
(antico canto ad Illa Diva)

Liber I - Ragnarok

Liber I

Johannis V PP

Ragnarok
seu caeliculum occasum

II G

Circiter DCXL post Christum natum

giovedì 1 marzo 2007

Prooemium*

Praeclara a Quinto gesta, postquam sua patria a Byzantiis et Arabiciis Macometi sectatoribus oppungata erat, quia omnes petebant Illam, referre volo.

Is autem cognovit Illam Divam, in marmoreo templo ubi tuita erat, et ob eius cognitionem, reliquit arma et ad eam sese dicavit.
Cum postea Susiana cecidisset, suo cum populo ad Orientem profectus est et trans Oxiadem amnem constitit. Johanni Presbytero regnante, magnum regnum ortum est, propter mercaturas dives, et in hoc, traducta ad Novam Magnam, culta est, nominata Maria Nostra Diva.
At adversa fortuna Transoxaniam affecit et barbari Turcici in eam irruperunt, populatis copiis de Presbytero. Ad flammas data est Nova Magna, atque in clade multi periēre, attamen Fabius, olim strategus de Susiana, e clade perfugivit non ad suam salutem petendum, sed ad Illam servandum.
Omnes iam sciunt quod ab eo reproficiscendum fuit.
Quintus Fabius, secutus a paucis, secum ferens Illius simulacrum, in Europam remeavit usque ad Bobii monasterium. Per viam, occurrens ad multos, orbem vastatum spectavit.
Nec fas neque ullus ius potuēre retinere finem vetera imperia, Persarum Romanorumve. Novis temporibus agamus. In Asia regnant Arabes Macometi sectatores, in Gallia Franci, in Italia Langobardi.
Et Quintus invenit quod quaerebat.
Fortasse.
Scribam de Quinti gestis in libris tres: libro in primo, nominato Ragnarok seu caeliculum occasum, quod est latino nomine pro illo, narrabo historiam de Susiano thema, vivens indipendens ex imperio Byzantii romano et eius hostis, et de Illius templo, quod et Byzantii et Susiani et Arabici quaeritabant, ut id delerent aut servarent. Libro in altero, Rex et sacerdos, quia Presbyter Johannes fuit rex Transoxaniae et sacerdos Christi, narrabo historiam de Transoxania, regnum condito a Johanni presbytero et in quem Quintus tulit Illius simulacrum ad servandum, at in quem irruperunt barbari, et id igni ferroque vastaverunt. Post hoc, Quintus abiit. Libro in tertio, inscripto Άλήθεια, quod est Graece pro veritate, narrabo de Quinto itinere, ab Asia ad Italiam, et de sapientibus quos ille invenerat et rursus invenit, qui eum dixerunt multa de eo et de Illa. Tandem, Illa ipsa locuta est.


Iohannes V PP


Trad.:Voglio riferire le imprese illustri compiute da Quinto, dopo che la sua patria era stata assalita dai Bizantini e dagli Arabi Mussulmani, perché tutti cercavano Illa. Lui stesso conobbe Illa Diva, nel tempio di marmo in cui era conservata, ed a causa della conoscenza di lei, lasciò le armi e dedicò se stesso a lei.
Essendo poi caduta la Susiana, partì con il suo popolo verso Oriente e si stabilì oltre il fiume Oxus. Sotto il regno del Presbiter Johannes, nacque un grande regno, ricco a causa dei commerci, ed in questo regno, trasportata a Nova Magna, è stata venerata, una volta chiamata Maria Nostra Diva.
Ma la mala sorte colpì la Transoxania, e i barbari turchi v’irruppero, dopo aver sconfitto le truppe del Presbiter. Nova Magna è stata data alle fiamme, e nella strage molti morirono, ma tuttavia Fabio, una volta stratego della Susiana, fuggì dalla disfatta non per cercare la propria salvezza, ma per salvare Illa. Tutti già sanno che dovette ripartire. Quinto Fabio, seguito da pochi, portando con sé la statua di Illa, tornò in Europa fino al monastero di Bobbio. Lungo la strada, incontrando molte persone, osservò un mondo devastato.
Né il diritto divino né nessun diritto umano poté fermare la fine dei vecchi imperi, dei Persiani o dei Romani. Viviamo in tempi nuovi.
In Asia regnano gli Arabi mussulmani, in Gallia i Franchi, in Italia i Longobardi.
E Quinto ha trovato quello che cercava.
Forse.
Scriverò delle imprese di Quinto in tre libri: nel primo libro, chiamato Ragnarok o tramonto degli dei, che è il nome latino di quello, narrerò la storia del Tema di Susa, indipendente dall’impero romano di Bisanzio e suo nemico, e del tempio di Illa, che sia i Bizantini, sia i Susiani, sia gli Arabi andavano cercando, per distruggerlo o per salvarlo. Nel secondo libro, Re e Sacerdote, perché il Presbiter Johannes fu re di Transoxania e sacerdote di Cristo, narrerò la storia della Transoxania, regno fondato dal presbiter Johannes nel quale Quinto portò la statua di Illa per salvarla, ma nel quale irruppero i barbari che lo misero a ferro e fuoco. Dopo di questo, Quinto se ne andò. Nel terzo libro, intitolato Άλήθεια, che è la parola greca che significa verità, narrerò del viaggio di Quinto, dall’Asia all’Italia, e dei sapienti che aveva incontrato e incontrò di nuovo, che gli dissero molte cose su di lui e su Illa. Infine, Illa parlò.


Giovanni V PP



*Proemio