venerdì 14 marzo 2008

Capitolo V - Rex et sacerdos

V. Bucharae, in Transoxaniā*

La corte itinerante del Presbiter Johannes, dopo i quattro mesi durante i quali aveva risieduto a Nova Magna, si era trasferita nella seconda capitale del regno, Buchara, città strappata ai nomadi turchi e nella quale era stanziato il più numeroso esercito della Transoxania.

Mentre il Presbiter amministrava la giustizia all’interno del suo palazzo, lo stratego Immanuel Calais definiva il dislocamento sul confine orientale delle truppe che aveva fatto ritirare dal fiume Oxus, e che ora attendevano acquartierate nei forti che circondavano la città.

Fabio, nonostante fosse semplicemente il custode del santuario di Maria Nostra Diva, era molto più esperto di lui nell’arte militare. Prima di iniziare a svolgere il proprio compito, era stato un ufficiale della milizia in una provincia dell’Impero Bizantino, stando almeno a quanto si diceva tra i veterani.

In Immanuel aveva sempre suscitato un’ammirazione mista a timore riverenziale. Quando parlava, lo guardava fisso negli occhi e sembrava indagare il suo pensiero.

Per questo motivo aveva preferito non porre la sede dell’esercito a Nova Magna, e non solamente perché la città montana era tagliata fuori dalle vie di comunicazione, come, ufficialmente, aveva detto al Presbiter.

Ripensandoci, Immanuel si sentiva falso, ma era soddisfatto di aver ottenuto il comando di un numero di uomini proporzionato al territorio che doveva controllare.

Lo scotto che aveva dovuto pagare era il ritiro completo dalla frontiera dell’Oxus, ma il deserto che separava il fiume dai domini arabi, e il fiume stesso, che non si trovava mai in magra, erano, a parere unanime del gabinetto di guerra, deterrenti sufficienti a tenere lontani eserciti nemici, che per di più non avevano notizie certe del territorio amministrato dal Presbiter Johannes. L’altro confine, al contrario, era facilmente violabile, perché si trattava di un basso terrapieno in mezzo alla steppa, che correva fino ai primi rilievi dell’acrocoro del Pamir. La Via della Seta, che transitava nel regno del re-sacerdote, attraversava la città di Samarcanda e passava a poche miglia da Buchara, portando all’interno della Transoxania carovane di mercanti diretti nell’estremo Oriente.

Le forze su cui il regno del Presbiter Johannes poteva contare erano soprattutto squadroni di cavalleria, che montavano i piccoli ma robusti animali delle pianure aride, come pure facevano le popolazioni mongole e turche con le quali il regno confinava.

Immanuel stava appunto spiegando questa situazione ad un gruppo di ufficiali, quando entrò trafelato nella sala dove si trovavano un messo, inviato da una tribù nomade che viveva non molto lontano dai confini del regno, e che aveva sempre mantenuto ottimi rapporti con lo stato cristiano. Parlando in un greco molto stentato, e quindi in un velocissimo e rotto turco, quando si sentì rispondere nella propria lingua dallo stratego, riferì dell’avvicinamento al proprio villaggio da parte di una popolazione sconosciuta ma terribile, che già aveva saccheggiato moltissimi villaggi della steppa e che stava assediando Talas, sul confine con l’impero cinese.

Le pochissime informazioni che conosceva affermavano che quella popolazione era composta, secondo i testimoni, da temibili donne guerriere, mentre l’unico uomo che esulava dalla condizione servile era il loro re, il cui nome sarebbe suonato, in latino, Faber Rosarum.

Dopo aver preteso tributi, in virtù della preponderanza militare, avevano iniziato a saccheggiare i villaggi che si erano rifiutati di pagare, e in quel momento stavano tenendo in scacco un’armata inviata dal principe Tang, imperatore dei Cinesi.

Se, come sembrava probabile, quel popolo, che per affinità con le mitiche guerriere ircane, era chiamato Αμαζόναθας[1], si fosse diretto verso la frontiera settentrionale della Transoxania, l’esercito del Presbiter Johannes si sarebbe trovato in gravi difficoltà nell’arginarne l’impeto.

Spronato da questa improvvisa comunicazione, Immanuel Calais si affrettò a far spostare tutti i suoi soldati lungo il confine settentrionale del regno, e partì lui stesso per il vallo che divideva lo stato cristiano dalla steppa, dominio delle nomadi popolazioni mongole, quali gli Avari, i Turchi e gli Unni.

La quotidiana celebrazione del Presbiter nella cattedrale di Buchara attirava grandi folle di pellegrini. I mercanti bizantini assistevano alle celebrazioni dall’esterno, diffidenti per la mancanza dell’iconostasi, ma rassicurati per i paramenti, così simili a quelli utilizzati dal rito orientale; i mercanti cattolici frequentavano la messa solamente se si trovavano a passare per la città la domenica. Gli Arabi non erano ammessi all’interno delle mura delle città.

Mischiato alla gente di tutte le razze che era convenuta per la celebrazione, anche un pellegrino, che aveva lo stesso aspetto di quelli che si recavano in Terra Santa, assisteva al rito. Stringeva in mano un lungo bastone nodoso, e partecipava alla funzione con fervore e raccoglimento.

Al suo termine, si accodò ad una comitiva di Persiani che sarebbe partita l’indomani per il santuario di Maria Nostra Diva a Nova Magna. Durante tutta la giornata era riuscito a strappare ai suoi compagni di viaggio, a quanti avevano già visitato la celebre città, perduta in mezzo ai monti, notizie sul santuario, cercando maggiore precisione di quanta erano in grado di fornirgli i pellegrini, che della loro visita ricordavano più la fatica del viaggio o il freddo della notte, e che se si ricordavano qualcosa del santuario, era la celebre statua di Maria Nostra Diva, che a lui non importava punto.

Nessuno, di quei bifolchi, ricordava quali fossero le proporzioni del timpano o l’ordine dei capitelli del tempio, o se la pianta della città fosse a maglia quadrata o centrata intorno ad una piazza, o ad un edificio.

I suoi compagni di viaggio lo avevano ripreso più volte, appellandolo “senza Dio”, siccome anteponeva sempre l’edificio al rito che dentro si svolgeva. Anche quella mattina, sebbene sembrasse a tutti in rapimento mistico, stava osservando con attenzione prima il disegno musivo della pavimentazione policroma, e poi la raffinata pala che si trovava dietro l’altare.

Non che fosse un materialista, sensibile solo alle opere dell’uomo, ma credeva che l’armonia architettonica fosse specchio della perfezione del suo artefice.

In quel periodo, stava cercando, vagando per tutto il mondo conosciuto, la costruzione di culto più raffinata e proporzionata. Non l’aveva trovata né nelle solide architetture gote né nella luce immateriale delle chiese bizantine, per non parlare della moschea di Damasco, che aveva assorbito solo la malagrazia della basilica paleocristiana; un vecchio che aveva incontrato alle rovine di Susa, dove si era recato sperando di poter ammirare il palazzo del Re, ma di cui aveva trovato solo un muro diroccato, gli aveva riferito che la popolazione sopravvissuta si era rifugiata al nord, nella Transoxania.

Lungo la strada aveva raccolto altre informazioni, ed ora che si trovava a solo un centinaio di miglia dal suo obiettivo, la città di Nova Magna, ogni minuto di ritardo lo esasperava.

Partendo per la montagna insieme con un gruppo di Persiani, e girandosi, vedendo la città di Buchara spuntare dalla nebbia del mattino –che cattedrale orribile!– strinse inconsapevolmente l’arma che portava sotto il saio.



* A Buchara, in Transoxania

[1] Amazònathas

martedì 4 marzo 2008

Capitolo IV - Rex et sacerdos

IV. Byzantii*
Tra la folla variopinta che affollava le viuzze della nuova Roma, composta di gente di tutte le razze e di tutte le nazioni del mondo, nessuno notava la strana coppia che, ormai da qualche giorno, percorreva il decumano massimo cercando, in tutte le botteghe, qualcuno che non arrivava mai.
Erano due uomini, uno giovane e fiero, che apparteneva a qualche popolazione germanica, l’altro di mezza età, vestito come un pastore e con una corta barba di foggia persiana.
Non erano rari, a Bisanzio, vecchi che vestivano alla maniera degli abitanti della Persia, soprattutto da quando, una ventina d’anni prima, il grande impero, tradizionale nemico dei Romani d’Oriente, era caduto sotto la dominazione araba.
Questi vecchi, perlopiù visionari e stregoni zoroastristi, erano considerati infidi dalla popolazione urbana, che, a volte, ne lapidava qualcuno, ma sembrava fossero stati accolti in buon numero all’interno del Sacro Palazzo, da quando il Sinodo clandestino aveva cacciato il Patriarca Panatto e aveva insediato un patriarca, isaurico come il nuovo imperatore Leone.
L’eresia Isaurica, nata soprattutto per i contatti tra ascetismo orientale e le religioni aiconiche mussulmana ed ebraica, aveva accettato anche il manicheismo degli Zoroastristi ed era, in virtù del sincretismo cui era ispirata, molto ben accetta dal popolo, che nella sua quasi totalità la professava.
Il giovane germanico, dalla figura altissima ed imponente, apparteneva al popolo dei Franchi, che si era da più di un secolo insediato nella Gallia settentrionale e nella Belgica. A dispetto della giovane età, era uno dei nobili più insigni del suo popolo, ed era stato nominato comes del re poco prima di partire per quella missione diplomatica.
L’uomo più attempato che l’accompagnava era uno dei consiglieri del re dei Franchi; il motivo per cui sembrasse persiano poteva essere una coincidenza, oppure determinato da sue effettive origini orientali. In realtà, pochi sapevano donde venisse o come avesse fatto ad ottenere il proprio compito, e meno ancora perché avesse spinto il Consiglio del Re ad indire quella missione.
I due uomini vagavano per il decumano massimo cercando informazioni sul precedente patriarca di Costantinopoli, di cui erano sparite le tracce al tempo del Sinodo; era come se il consigliere del re avesse un antico conto in sospeso con il religioso, e andasse cercandolo con foga innaturale.
Dal canto suo, il giovane conte assecondava il dignitario che gli fungeva anche da guida, poiché conosceva perfettamente tutti i remoti recessi della città e di tutte le città che avevano attraversato.
Anche quel giorno, allo stesso modo di tutti quelli della settimana precedente, i due avevano chiesto la stessa cosa in tutte le bettole in cui erano entrati. Senza successo.
In quella in cui si trovavano in quel momento era seduto, in un angolo buio, un contadino che veniva dalla Tessaglia. La descrizione del Patriarca di Costantinopoli Panatto, accompagnata dal suono delle monete che i due tenevano in mano, lo fece alzare ed avvicinare al conte.
Con voce bassa ed incerta, rivolse loro la parola:
«Il Patriarca Panatto? Un vecchio come quello di cui dite è passato dal mio villaggio il mese scorso. Non credo, però, che sia il nostro vecchio patriarca. Poteva sembrare un’eremita, anche se mi era sembrato strano che si accompagnasse ad un soldato barbaro.»
Il giovane conte sobbalzò.
«Soldato barbaro? Che aspetto aveva?»
«Era tarchiato, ceruleo di occhi e aveva capelli rossi. Poteva sembrare uno di quei mercenari longobardi arruolati nell’esercito, ma viaggiava da solo, mentre li ho sempre visti con tutta la loro famiglia al seguito.»
Il giovane stava per rispondere, ma l’inizio della sua domanda venne sovrastato da quella del suo compagno.
«Bene. Per dove erano diretti?»
«Non lo so, signore, non so dove volessero andare o dove avrebbero trovato requie. Ma il barbaro parlava di confini dell’Oriente.»
Il contadino fu immediatamente pagato, dopo avergli intimato di non parlare con nessuno del loro incontro, e i due uscirono dalla bettola affrettandosi alla locanda dove erano alloggiati.
«Abbà, siete sicuro circa la segnalazione del Patriarca?», chiese a bruciapelo il giovane.
«Comes Damien Dusieur, la dichiarazione è certamente attendibile. Ci dovrebbe preoccupare il Longobardo, piuttosto. Significherebbe che Panatto è riuscito a trovare alleati. Dobbiamo raggiungerlo prima che attraversi l’Oxus e si perda nelle steppe dell’Asia centrale.»
Arrivati velocemente al luogo dove alloggiavano, si prepararono per la partenza; Abbà si gettò sulle spalle una sacca di pelle, mentre Dusieur si preparò vestendosi alla Franca, appendendo ad un pesante cinturone, stretto attorno alla tunica che copriva la cotta di maglia, la spada a due tagli.
Partirono subito dopo, entrambi a cavallo, cercando di recuperare il tempo che potevano aver perso nei confronti di Panatto e del misterioso Longobardo.
*A Bisanzio