Il sentiero che conduceva all’interno della valle era stato invaso dalle sterpaglie; la vegetazione lussureggiante, non più curata, si era aperta la strada invadendo i campi una volta coltivati.
Non a tutti i morti, in quel giorno maledetto, era stata data sepoltura. Nel grande campo di battaglia, all’esterno della valle, tutto era rimasto com’era. Lì, sulle sponde del lago, che ormai stava mutandosi in palude, dove si era combattuto non contro i Romani che reclamavano le loro province, ma contro incursori barbari, i poveri coloni a servizio del collegio sacerdotale di Illa Diva avevano seppellito la maggior parte dei corpi straziati subito dopo il termine della battaglia, ed avevano radunato gli altri; purtroppo, la sera dello stesso giorno, un manipolo di sopravvissuti bizantini aveva scovato l’entrata della gola, vi era penetrato ed aveva concluso la strage, colpendo gli uomini che stavano raccogliendo i cadaveri ed incendiando il villaggio, dove si trovavano donne e bambini.
In poco spazio, vent’anni dopo, rimanevo come monito per il futuro solamente i resti bruciati dell’Illius Ninfeo e del villaggio, in cui un tempo viveva Hexàmeron, mentre del famoso tempio di Illa Diva erano rimasti, danneggiati ma ancora in piedi, il colonnato frontale con il timpano ed il muro perimetrale. Le sculture erano state sfregiate, ma non avevano perso la pregiata fattura che le contraddistingueva.
Due uomini vestiti di nero, a cavallo, stavano entrando silenziosamente all’interno del bosco sacro che circondava le rovine dell’Illius Ninfeo. Uno, quello dalla figura più imponente, si comportava come conoscesse quel luogo a menadito.
Con fare sicuro, appena erano arrivati in vista del rudere, era smontato dal cavallo e l’aveva legato ad un albero, per poi avvicinarsi a quello che sembrava un pezzo di portale. L’altro gli tenne dietro con maggiore difficoltà e circospezione, poiché non aveva mai visto un luogo simile e non capiva il motivo per cui il cardinale l’avesse portato in mezzo a quella desolazione.
Quando erano arrivati, nel pieno della notte, a Damasco, avevano trovato ricovero per due giorni nella casa del vescovo locale che, dopo essere stati riforniti di mezzi, avevano lasciato per attraversare il deserto. In due settimane di viaggio tranquillo e solitario avevano raggiunto le sorgenti di un fiume, presso le quali giaceva una grande quantità di resti umani. Si erano quindi avvicinati al massiccio montuoso che si trovava non distante da quel luogo, ed erano penetrati in quella valle nascosta.
ΡαεFώθζ era passato sotto il portale, ed uscì subito dopo chiamando il suo compagno:
«Iorges, avvicinati e vieni dentro. Dobbiamo cercare una cosa.»
Il giovane monaco seguì la sua guida, ed insieme entrarono nella grande costruzione.
Il fuoco aveva distrutto tutto quanto c’era di legno, e i soppalchi che separavano i vari piani dell’edificio erano crollati, lasciando solo la scala elicoidale, di marmo, che percorreva la parete interna.
«Eminenza, credo che non sia possibile trovare nulla in mezzo a queste rovine. Se anche fosse rimasto qualcosa dall’epoca della battaglia, certamente ora sarebbe già stato rubato o, come credo più probabile, corrotto dal tempo.»
Il cardinale non l’ascoltava; era impegnato a cercare, tra le ossa dei barbari e dei soldati che giacevano qua e là, abbrunite dal fumo, un segno che gli potesse far riconoscere i propri commilitoni. Le scimitarre appartenevano a soldati delle forze di sicurezza del Tema di Susiana, che comandava, mentre le corte daghe erano le armi dei Massageti.
Giungendo perfino a scavare con le mani sotto i detriti dei soppalchi crollati, il cardinale cercava, in primo luogo, i resti del suo primo ufficiale, che era morto quando ormai la battaglia era stata vinta.
Confidando troppo in se stesso, dopo aver ucciso uno dei due capi barbari che guidavano l’incursione all’interno dei territori governati da Adriano Re, aveva voltato le spalle al compagno di lui ed era caduto, un momento prima che ΡαεFώθζ giungesse ad aiutarlo.
Seminascosta da un piccolo scudo di cuoio marcito, che era appartenuto a Currus, capo dei Massageti, giaceva una scimitarra che portava incisa sull’elsa un’iscrizione latina:
Vi ordinem serba: serba ordinem, et ordo serbabit te. Panattus dedit[1].
Il suo primo ufficiale, Αρσωΐν, aveva ricevuto la sua scimitarra in dono da Panatto Retore, primo consigliere del re e, come si scoprì in seguito, Patriarca di Costantinopoli; anche ΡαεFώθζ aveva ricevuto un’arma da quell’uomo, la stessa arma che portava tuttora sotto la veste; ma l’iscrizione era troppo rovinata per essere leggibile.
Trovare i resti del proprio più affezionato commilitone abbandonati a loro stessi lo fece restare alquanto; finché si riscosse dalla particolare condizione in cui era caduto cercandoli, chiamò a gran voce Iorges, che era rimasto nell’atrio del ninfeo, e gli ordinò di aiutarlo a seppellire Αρσωΐν appena fuori dell’edificio.
Sperando che tutto quello che veniva coperto di terra avesse effettivamente fatto parte di lui, e di non aver sepolto anche un pezzo di barbaro, i due religiosi si allontanarono dal ninfeo, dirigendosi verso il Tempio di Illa Diva, che era stato dato alle fiamme da un misterioso personaggio poi scomparso ma che, essendo fatto di legno solo il tetto, era rimasto quasi intatto.
Non c’erano più barche per raggiungere l’isola sulla quale sorgeva il santuario, ma la stagione era secca e fu possibile guadare il braccio di lago che separava il ninfeo dal tempio.
Il podio, decorato di donne in processione, era stato rovinato da qualche mano iconoclasta, ma l’insieme era fatto salvo.
Lo stilobate era sporco e coperto di foglie putrescenti, ma l’interno, se non fosse stato per l’aspetto spettrale che aveva, era intatto.
La luce, poiché il sole era basso, non entrava dal tetto, ma dalla finestra che, una volta, serviva per illuminare il loculo dove era posta la statua di Illa Diva, che poi era stata portata via da Quinto Fabio, stratego del Tema di Susiana che aveva deciso di seguire i sopravvissuti del suo esercito.
Infatti, al termine della battaglia, il patriarca di Costantinopoli aveva ordinato il suo segretario Pagno sacerdote e l’aveva inviato verso l’Oriente, con lo scopo di formare un nuovo regno cristiano; Quinto Fabio l’aveva seguito, chiedendo di potersi dedicare al culto di Illa Diva, la cui statua aveva salvato dall’oblio.
All’interno del tempio rimaneva ancora il braciere d’argento, entro il quale, un tempo, ardeva il fuoco sacro, e lo scanno della gran sacerdotessa, dietro al quale erano riposti i libri che Panatto aveva preso e che, in seguito, gli aveva fatto avere.
ΡαεFώθζ si era seduto, meditando, quando fu raggiunto da Iorges che, nel frattempo, aveva indugiato all’esterno della costruzione.
«Eminenza, ora che è escluso che alcuno ci senta, mi potete dire qual è la missione che dobbiamo svolgere? Mi avete detto solamente di proteggere la copia che mi avete fatto fare di quel libro, ed io l’ho sempre fatto, ma non capisco a che scopo. E, soprattutto, cosa siamo venuti a fare qui? E perché nelle vicinanze ci sono tanti cadaveri?»
«Dom Iorges, io non so se sei pronto per sapere quello che vuoi farti dire, ma te lo dirò ugualmente.
Ci troviamo nella valle in cui, fino a vent’anni fa, si trovava il santuario di Illa Diva. Illa Diva è una divinità di origine indoeuropea, come sono di origine indoeuropea le divinità dell’Olimpo e quelle venerate un tempo in Persia e in India.
La teoria propugnata dal patriarca Panatto sostiene che, in realtà, il monoteismo ebraico, dal quale discende la religione cristiana, non è di origine semita, ma è stato originato dopo la cattività babilonese del popolo di Israele e la sua liberazione da parte dei Persiani, che anticamente regnavano su queste regioni. Lui cercava prove che il monoteismo avesse riscontri in altre regioni abitate da popoli indoeuropei, e che fossero presenti comunanze tra i riti di religioni differenti. Questo santuario, nel quale si venerava una divinità molto simile per attributi sia a Vesta, dea del focolare, che alla vergine Maria, celava testi che avrebbero provato tale ipotesi, come in realtà hanno fatto.
Pochi mesi fa mi è giunta da Costantinopoli una lettera, inviata dal patriarca Panatto, ormai molto anziano, che mi annunciava sarebbe partito per fuggire dalla sua città, nella quale si preparava una rivolta contro di lui, e mi affidava i testi, chiedendomi la promessa di rincontrarci nel regno del Presbiter Johannes, che si trova in Transoxania. Ho riferito tutto ciò al Papa, e il Santo Padre mi ha affidato, in più una lettera da portare al re-sacerdote, circa una questione di diocesi nell’Italia meridionale che ci divide dalla sede patriarcale di Bisanzio.»
Questa quantità di informazioni gettata improvvisamente su Iorges lo fece barcollare, e gli fece porre una domanda.
«Eminenza, e perché sono stato chiamato?»
«Te l’ho già detto, figliolo. Un monaco di fiducia avrebbe in ogni caso dovuto copiare il libro che proteggi, e avrebbe poi dovuto o seguirmi, o essere rinchiuso in qualche eremo, come ti avevo già precedentemente ventilato.»
Dopo aver finito di parlare, il Cardinale si alzò, uscì velocemente dal tempio, senza indugiare ancora nei ricordi, e tornò, insieme a Iorges, sull’altra sponda del lago.
«Eminenza, perché il santuario è stato devastato?», chiese il benedettino, mentre stavano montando a cavallo.
«Dopo aver sconfitto i Massageti e finito chi cercava di fuggire, il patriarca Panatto, Iohannes Pagno, suo segretario, e Quinto Fabio entrarono nel tempio di Illa Diva, insieme ad un enigmatico personaggio che incontrammo nel villaggio qui vicino e che disse di chiamarsi Abbà. Attirato dai tesori che erano raccolti nell’edificio sacro, li sottrasse e, prima che riuscissimo a fermarlo, appiccò il fuoco al santuario e sparì dalla nostra vista. Sinceramente, credo che fosse un volgare ladro, ma impressionò molto gli altri presenti. Soprattutto per questo motivo, non è mai stato ricercato.»
Quando ΡαεFώθζ finì di parlare, già stavano lasciandosi alle spalle la valle di Illa Diva, dirigendosi verso oriente, percorrendo la via carovaniera che portava al Catai, oltre le montagne del Pamir.