giovedì 15 marzo 2007

Capitolo III - Ragnarok

III. In regno Damasceni chalifi, septentrionale fine*

Dall’alto di una rupe, tre uomini a cavallo di cammelli osservavano la piana sottostante, spazzata dal forte vento d’occidente. In qualsiasi direzione si guardasse, non si scorgeva anima viva. La pista che congiungeva Susa con Antiochia e Bisanzio passava sotto di loro, e si riconosceva per il colore più chiaro delle rocce, mentre intorno radi cespugli e pietraie occupavano la distesa arida. I tre uomini, interamente coperti da una veste, nera come il turbante, portavano al fianco una scimitarra e, dietro la schiena, arco e faretra. Quello dei tre che si trovava in posizione più avanzata, schermando la luce del sole con la mano, scrutava ripetutamente il tracciato della pista, come aspettando qualcuno.
Da Occidente, in lontananza, iniziò a sollevarsi un polverone, che avanzava lentamente. Dopo un’ora di attesa, la carovana si era portata al di sotto dei tre.
In quel momento, all’improvviso, risuonò un lugubre suono di corni, e da dietro le dune e i massi che si trovavano alla base della rupe uscì una cinquantina di uomini, vestiti di nero come quelli che sovrastavano la scena. Con le scimitarre sguainate si lanciarono contro la carovana, che era scortata da un esiguo numero di soldati.
«Comandante! Quelli non sono dei nostri!».
«Questo c’intralcerà non poco. Avremmo dovuto fermare la carovana, ma ora non è più possibile.»
Ραευώθζ [i], il comandante, ordinò ai suoi uomini di intervenire e di disperdere i predoni. Irruppero allora un centinaio di uomini in nero, che attaccarono battaglia con gli altri. Purtroppo, gran parte della carovana era già stata distrutta, e gli stessi predoni continuarono parte del loro massacro senza accorgersi del pericolo che si stava riversando su di loro.
Dopo dieci minuti, durante i quali le lame s’incrociarono e colpirono, i predoni arabi erano stati messi in fuga. Gli ufficiali si riunirono, scoprendosi i volti.
«Non erano questi i piani, comandante. Abbiamo perso qualche uomo.»
«Ora non è importante. Ci sono sopravvissuti tra i mercanti?», chiese Ραευώθζ.
Prese la parola un giovane ufficiale, che comunicò: «Non erano mercanti, comandante. Gli armati portavano le insegne bizantine. Si trattava di una missione diplomatica. C’è solo un sopravvissuto, pare l’ambasciatore.»
Le sue condizioni erano disperate. Fu medicato dall’infermiere, che premette affinché fosse portato in qualche posto sicuro e riparato, dove potesse essere curato a lungo. Facilissimo, in mezzo al deserto. La colonna si mise quindi in marcia, alla ricerca di un posto per portare il ferito. Ραεõώθζ puntò verso nord, e in qualche ora superò un’oasi e portandosi verso un gruppo montuoso. La vegetazione si faceva meno stentata, e le cime erano coperte di palmeti. Superata una strettissima gola, le cui pareti si innalzavano perpendicolari e invase da bassa vegetazione, fecero l’ingresso in una piccola conca riparata dall’esterno, dalla ridente vegetazione che circondava un ameno laghetto. Su un isolotto al centro del laghetto sorgeva un piccolo tempio in marmo azzurro.
«Signori, il famoso santuario di Illa Diva.»
Dal santuario, che si specchiava sulle acque calme del lago, uscì una figura in vesti bianche. Dopo aver osservato per qualche attimo i primi uomini che dalla gola sboccavano nella conca, rientrò nel tempio. Otto colonne in stile ionico reggevano il suo timpano triangolare, nel quale, scolpito in alabastro, campeggiava un gruppo scultoreo. Il podio sul quale il tempio reggeva era finemente scolpito di donne in processione, mentre una nuvola d’incenso aleggiava nei pressi dell’ingresso.
Il primo ufficiale Αρσωΐν[ii], portatosi accanto al comandante, gli chiese: «Comandante, non siamo dove ha detto, mi auguro…Le leggende dicono che nessuno degli uomini che ha cercato il santuario di Illa Diva è mai tornato vivo, e noi siamo tutti uomini. Qualcuno parla delle leggendarie amazzoni, che si sarebbero ritirate su questi monti mille anni fa, note per la loro attitudine a sterminare i maschi.» La sua giovane età, mostrata dagli occhi limpidi e trasparenti, contrastava con i segni profondi di un brutto vaiolo. Una goccia di sudore gli solcava la guancia, tremante per un tic nervoso. Era paura, quella che Ραευώθζ gli leggeva in volto e sulle mani, tremanti? Paura. Avessero saputo, i suoi soldati, la verità sul tempio, forse si sarebbero già dispersi per i boschi, cercando sollazzo e riposo. Tenendoli uniti, contava avrebbero mantenuto la disciplina anche in qualsiasi situazione.
Inoltratisi nel fitto della macchia, circondati dai versi di mille animali, gli uomini tremavano sotto il nero dei turbanti. Il sentiero girava intorno al lago, tra bassi cespugli di fiori odorosi e piante da frutto; una natura da giardino dell’Eden, che se non avesse nascosto insidie, sarebbe stata da godere fino all’ultimo respiro.
Si parò loro davanti un uomo. Una veste bianca e sottile ne copriva a malapena torace e cosce. Una stretta cintura gli cingeva i fianchi, e occhi da bambino guardavano i guerrieri, non spaventati ma stupiti, come se non avessero mai visto altri uomini.
Con voce sottile si rivolse al primo della fila, Ραευώθζ: «Io sono Hexàmeron. Chi siete voi, forestieri?»
«Siamo soldati e portiamo un ferito. Portaci all’Illius Ninfeo.», ordinò questi.
Allarmato, Hexàmeron si coprì il volto, rispondendo «Non è possibile, signore. È luogo proibito»
«C’è luogo interdetto a molti, ma spalancato a pochi. Bada, se vuoi salva la vita…» minacciò il comandante.
Il giovane, che non aveva più di vent’anni, si mostrò titubante ma, alla fine, cedette, e decise di accompagnare Ραευώθζ, Αρσωΐν e il ferito all’Illius Ninfeo.
La costruzione, in pietra rossa, si trovava nascosta nel più fitto del bosco. Una cupola semisferica, era retta da una costruzione dodecagonale alla quale erano addossati archi rampanti che scendevano sul corpo di base, formato da un blocco principale quadrato circondato da atri e porticati ombrosi. Nella cupola e nel corpo dodecagonale si aprivano finestre, velate da sottili tende di lino, mentre il rumore di numerose fontane riempiva l’aria. Hexàmeron, non appena fu in vista della cupola rossa, fuggì nel folto della macchia. Αρσωΐν, vedendo il giovane fuggire, fece per girare il cammello, ma fu fermato dal suo comandante con un cenno. Proseguirono quindi, trascinando la barella su cui avevano trasportato il presunto ambasciatore di Bisanzio. Quando uscirono dal bosco, trovandosi in un prato raso con cura, nel quale da una fontana sgorgava l’acqua che percorreva un ruscelletto per dirigersi in direzione del lago, Αρσωΐν smontò dalla sua cavalcatura e prese con sé anche quella di Ραευώθζ, che si era diretto, appiedato, in direzione del porticato.
Da dietro una grossa colonna di marmo rosso, un lieve soffio di vento mostrò il lembo di una veste bianca. Il suo proprietario, appena si avvide che non era completamente celato, si strinse contro la pietra, chiedendo, con un filo di voce: «Chi è là, stranieri?»
Il comandante si sciolse il turbante, mostrando lunghi capelli neri.
«Sono Ραευώθζ, comandante dei Servizi di Sicurezza del Tema di Susa. Mostratevi!»
E, così dicendo, gettò l’arco, la faretra e la scimitarra al suolo, intimando sottovoce ad Αρσωΐν di fare altrettanto.
Da dietro la colonna, allora, emerse una figura femminile, coi lunghi capelli, castani, al vento, vestita in modo simile ad Hexàmeron, sebbene si notasse che la qualità del filato e del taglio erano molto superiori.
Chinando il capo, per non incrociare lo sguardo di Ραεõώθζ, disse: «Stranieri, voi non dovreste essere qui. È molto grave sfidare Illa Diva, nostra guida.» Poi si avvide del ferito, che con bassi gemiti si lamentava per le sue ferite. Estrasse un sistro, che portava alla cintura, e il suo suono celestino attirò altre donne, che raccolsero il ferito portandolo all’interno del Ninfeo.
«Attendete qui, potreste essere ammessi alla presenza della nostra superiora»
Dopo qualche minuto, durante il quale il giovane Αρσωΐν riprese un po’ di colore, giacché non era stato fatto a pezzi come s’aspettava, tornò la donna, che introducendoli nel Ninfeo e portandoli nella cupola, spiegò loro un poco del luogo in cui si trovavano.
«Questo è il Santuario di Illa Diva. Noi siamo qui al suo servizio, che si svolge nel Tempio che avete visto. Ma interdetto è l’accesso agli uomini. Un tempo accorrevano qua donne da tutta la Media, chiedendo grazie. Ma, per il resto, vi parlerà la Superiora, dicendovi quello che vi sarà concesso sapere.»
Una scala elicoidale, che percorreva tutto il muro interno dell’edificio, portava alla sala del terzo piano. La stanza, rotonda e grande tutta quanta la cupola, era molto luminosa: si aprivano infatti nella parete otto finestre incorniciate da colonne ritorte, che gettavano sul pavimento, di marmo di (ebbene sì, sembrava proprio) Carrara, ombre eleganti e slanciate. Contro una parete era posto uno scanno, sul quale sedeva una sacerdotessa. Il libro chiuso che teneva sotto la mano sinistra, appoggiato al bracciolo del trono, era scritto in caratteri minuti e sinuosi, che sembravano arabi ma presentavano una comune legatura superiore. Con voce ultraterrena, che sembrava non provenire dalla sua bocca, iniziò a parlare rivolgendosi indistintamente ai due soldati.
«Il Collegio sacerdotale di Illa Diva non ha mai accettato uomini nel territorio da sé amministrato. Oggi mi è detto che un’armata ha osato avventurarsi nella nostra conca, ha posto le proprie tende nella foresta che protegge il nostro segreto…Non vi sarebbe stato concesso ciò, se non avessi visto e vedessi tuttora nere nubi di sventura calare su di noi. Ραεõώθζ, che stimo e ho già avuto piacere di conoscere, può esserci di aiuto, nonostante il vostro arrivo non abbia dissipato la cappa che il Fato ha posto sopra di noi. È bene che andiate dai vostri capi, e mettiate in guardia anche loro: non mi è ancora chiaro se la calamità sarà o meno circoscritta.
In quanto al ferito, vedremo di accudirlo. E ora forza, che il tempo va scarseggiando.»
Un’altra sacerdotessa li accompagnò in fretta ai loro cammelli. Partirono al trotto per la fitta macchia e, allo sbocco sul sentiero, non essendosi accorti del sopraggiungente Hexàmeron, gli andarono contro. Hexàmeron, alzatosi subito dopo, li osservò spaventati; li aveva già dati per morti.
Erano già spariti, svaniti nel fitto del bosco.
Raggiunto il resto dei soldati, si allontanarono rapidamente dal massiccio montuoso e presero a discendere lungo il fiume Choaspe, che scorreva là e si portava fino a Susa, prima di perdersi in paludi bituminose.
* Califfato di Damasco, confine settentrionale
[i] Raevótz
[ii] Arsôïn

Nessun commento: