lunedì 29 ottobre 2007

Capitolo III - Rex et sacerdos

III. In duci Demetrii castris, in Langobardiā*
La lunga notte moriva nella grande pianura, le poche tende disposte attorno ai resti di un falò spuntavano appena dalla nebbia lattiginosa che non era ancora salita. Cinque cavalcature erano legate ad una sbarra e sbuffavano vapore dalle nari. Nella sua tenda il dux Demetrius Vonherus vegliava già da quasi un’ora, mentre nelle tende vicine ancora tutti dormivano. In un angolo erano appoggiati una lunga lancia ed uno scudo ricoperto di pelli. Un rotolo di pergamena con il sigillo violato era semidisteso su una tavola di legno, scarabocchiato in un latino imbastardito.
Il dux si alzò dal suo sgabello, il grosso cane levò lo sguardo da terra, gettò un’occhiata distratta al padrone e tornò a dormire; l’uomo uscì dalla tenda, dirigendosi verso il quartiere dei servi, per far riaccendere il fuoco e preparare il desco. Si trovava nello spiazzo principale dell’accampamento, quando dalla nebbia emerse la figura alta e magra di un vegliardo. Demetrius scorse un cerchio di capelli bianchi intorno alla testa, quando il vecchio si scoprì, togliendo il cappuccio della sua caracalla. Nel silenzio, rotto solo dal respiro ritmico dei cavalli, il vecchio fece un cenno al rozzo soldato, indicandogli di sedersi. Poi aprì la bocca, salutandolo. Il barbaro non capiva il greco in cui parlava l’uomo che gli si trovava innanzi, e impugnò la grossa spada a due tagli che portava appesa alla cintola, brandendola minacciosamente verso di lui. L’altro, avendo intuito che il suo interlocutore non lo comprendeva, ripeté il saluto in latino, questa volta compreso.
Il dux Demetrius gli rispose, nonostante il suo latino non fosse paragonabile a quello del vegliardo.
«Buongiorno a te. Chi cerchi?»
«Stavo cercando voi, signore. Vorrei proporvi un’impresa illustre, che vi porterà grande fama presso il vostro popolo, un’impresa in terre lontane che nessun Longobardo ha mai visitato.»
«Io non ti capisco, Romano. Non ti conosco, e tu vieni a casa mia proponendomi di lasciare la mia terra per località ignote.»
Fece cenno ad un servo che si stava avvicinando, mandandolo a prendere la pergamena che si trovava nel suo studio. Quando fu tornato, continuò.
«Vedi questo foglio? Il mio re Bugarico mi ordina di penetrare nel regno dei Gepidi con la mia fara, per raggiungere la loro capitale entro primavera. Non posso seguirti.»
«Voi conoscete la potenza dell’impero romano bizantino, e sapete che non solo vi sovrasta enormemente, ma che anche ostacola il vostro cammino verso la totale conquista della verde Italia. Seguitemi e acquisirete una forza tale da non essere più secondi a nessuno in Europa.»
Gli occhi cerulei del capo barbaro brillavano di avidità.
«Cosa mi chiedi, dunque?»
Sorridendo, giacché si era avveduto che il suo rozzo interlocutore stava cadendo nella rete che aveva teso, il vecchio rispose:
«Venite con me oltre i confini dell’Oriente, ed io vi ricompenserò. È una missione d’importanza fondamentale che il Patriarca Ecumenico di Bisanzio vi vuole affidare.»
«Chi è questo Ecumenico? Non lo conosco.»
«Ora lo conoscete.»
Demetrius non sembrava capire.
«Sono io!», sbottò innervosito il religioso.
Il Longobardo era sul punto di accettare, ma presentò un’ultima obiezione.
«E chi amministrerà la mia fara?»
«So che il più promettente dei vostri nipoti è il giovane Liutprando. Scegliete lui.»
* Nell’accampamento del dux Demetrius, in Langobardia

venerdì 19 ottobre 2007

Capitolo II - Rex et sacerdos

II. Novae Magnae, in Presbyteri Johannis regno*
Un grande concorso di folla si era riversato lungo la strada che conduceva alla città, per festeggiare il periodico arrivo della corte del Presbiter Johannes. La processione era iniziata all’alba, aperta da centoquarantaquattro grandi croci tempestate di pietre preziose, seguite dalle insegne del Presbiter, da un migliaio di reliquiari argentei, dagli appartenenti alle confraternite delle città di tutta la Transoxania, dalle forze scelte dell’esercito, guidate dallo Stratego Immanuel Calais, e da mille altre meraviglie che gli occhi potevano vedere ma le parole non possono descrivere. Dopo ore di processione, dall’ultima curva della strada, che tortuosa attraversava scoscesi monti per giungere all’altopiano su cui sorgeva la città, si rivelò alla vista un grande baldacchino di seta impreziosito da sfavillanti gemme multicolori.
Scortato dalla guardia d’onore e accompagnato da dodici diaconi, il Presbiter Johannes incedeva verso la città, vestito di un lungo manto bianco che ne lasciava scoperto il capo, sul quale poggiava l’insegna del potere spirituale, secondo la foggia della Chiesa orientale. In mano aveva la croce, ripresa direttamente dall’insegna del Papa di Roma.
Erano passati vent’anni da quando aveva assunto il potere, ma il volto del re-sacerdote brillava ancora di giovanile ardimento. Entrava ora a Nova Magna, una delle capitali del suo regno, quella più isolata dalle vie commerciali che erano il motore dell’economia dei suoi domini, ma quella che attirava più pellegrini da tutta la Transoxania e anche dall’India.
Da una terrazza naturale dell’altopiano, incombeva la gran mole classicheggiante della chiesa madre di Transoxania, il famosissimo santuario di Maria Nostra Diva. Il timpano, ornato da un fregio di marmi multicolori, era esposto a sud ed era ben visibile da tutta la città. La gran massa di popolo era accalcata ai lati della via che, entrata a Nova Magna, saliva alla grande chiesa.
Quando, dopo il mezzogiorno, tutta la processione e, dietro di essa, il popolo furono giunti alla sommità dell’altopiano, il Presbiter Johannes, attorniato dai suoi diaconi, celebrò la Messa, che fu seguita da un grande banchetto.
Tra una portata e l’altra, che si succedevano ormai da ore, Immanuel Calais si avvicinava al suo signore, per aggiornarlo sui fatti che erano avvenuti in città nell’ultimo anno. Il rumore della festa si diffondeva in tutta la città, e le finestre del palazzo dominico, con la loro luce, rischiaravano la notte circostante. La città era buia: tutti gli abitanti di elevata condizione sociale erano invitati ai festeggiamenti, il popolo minuto dormiva come tutte le altre notti. Il santuario di Maria Nostra Diva era lievemente illuminato dall’interno, e un diffuso chiarore rifletteva sulle colonne di marmo bianco. Dietro il pronao era posto un braciere, dentro il quale ardeva un fuoco, piccolo ma sano. Dal fondo della navata osservava la scena, da una nicchia chiuse da colonne d’acquamarina, una statua non molto grande dai riflessi bluastri. Rappresentava una figura femminile dall’indicibile grazia. Se la perfezione fisica era già stata raggiunta dalle opere degli scultori della grecità, la perfezione morale che traspariva dalla statua non era mai stata raggiunta prima. I Greci utilizzavano la perfezione fisica per rappresentare quella morale; e il portamento eretto, le proporzioni delicate, la vita alta e il bel volto incorniciato da lunghi capelli sarebbero bastati per un Policleto. Quella statua possedeva una forza trascendente i cinque sensi della percezione, ma percepita da tutti gli osservatori: quella statua rifulgeva di grazia. In quel santuario assolveva alla funzione di simulacro mariano e tutti i pellegrini si chiedevano chi avesse mai realizzato un sì mirabile artefatto.
Il custode del Tempio e del Fuoco, a quella domanda, rispondeva sempre con le medesime parole: «Anni fa, venne da occidente un sacerdote che fondò su queste terre un grande regno e che tuttora è il vostro signore terreno. Insieme a lui arrivò su questo altopiano un soldato, che aveva visto le battaglie più sanguinose di quell’epoca e aveva sotto di sé migliaia di soldati. Era rimasto solo, e si fermò su questo altopiano fondando la città e costruendo questo santuario per venerare Maria Nostra Diva, la cui statua che vediamo in questo tempio aveva personalmente trasportato per tutto il suo viaggio. La donò al tempio e di lui non si seppe più nulla. Probabilmente è stato il predecessore dello stratego Immanuel Calais.»
Il custode del tempio aveva appena finito di spiegare queste cose a due giovani pellegrini indiani quando entrò nel santuario uno dei soldati del Presbiter Johannes, che lo chiamò e gli riferì:
«Il Reverendo Presbiter Johannes vi fa chiamare al suo palazzo, fratello Fabio.»
Vestito di un ruvido saio, Fabio si presentò al palazzo di marmo del re–sacerdote quando già gli ospiti avevano finito di andarsene. Nel grande atrio, vestito con una lunga cotta di maglia rinforzata sul torace e sulle spalle con scaglie di metallo, lo stava aspettando Immanuel Calais, stratego della Transoxania, che era il territorio su cui regnava il Presbiter. Appena lo vide, Calais s’irrigidì con deferenza, nonostante l’aspetto dell’ospite fosse alquanto malandato.
«Fratello Fabio, il Presbiter la sta aspettando di là nel suo studio privato. Mi posso permettere di ricordarLe» disse facendo sentire la maiuscola «che la situazione dei nostri organici militari è scarsa e che avremmo bisogno di nuove leve?»
Fabio annuì, divertito per il tono del generale. «Sì, Immanuel. È tuttavia la quarta volta che glielo chiedo e tu non sei mai stato esaudito. Pare che il Presbiter abbia un altro tipo di preoccupazioni.»
E, così dicendo, spinse la grande porta di legno intarsiato entrando nello studio del re–sacerdote. Tra le due pareti, adibite a biblioteca e ricoperte di voluminosi tomi, era posto un grande tavolo, dietro al quale sedeva la figura giovanile coronata da uno zucchetto nero. Il Presbiter Johannes si alzò non appena Fabio fu a distanza di voce.
«Signore, non vi ho visto al mio banchetto sebbene vi avessi mandato a chiamare. Volevo conoscere quanto è successo a Nova Magna negli ultimi nove mesi che prescindesse dal pettegolezzo»
«Johannes, non è bene che popolo o notabili ci vedano insieme, Sai che ho voluto rimanere in questa città perché è la più isolata del tuo regno e non ho voluto alcuna responsabilità di governo perché ho voluto rimanere al servizio della Mia Diva, Nostra Diva. Non ha senso che siamo visti insieme.»
Il re, che pure ostentava deferenza nei confronti di quell’uomo, cercò di ribattere:
«Non è per questo che vi ho fatto chiamare. Ho meno soldati di quelli che servirebbero a sorvegliare i confini, e quel Calais vuole anche fare una spedizione contro i Cinesi che premono troppo a nord-est. Cosa ne dite voi, che anni fa eravate il generale più invidiato dell’Oriente?»
«Ho servito il mio Paese e non chiedo nulla dal tuo, ma vorrei sapere perché, con questi problemi, non arruoli un numero maggiore di soldati. Gli uomini della Transoxania non sono pochi come mi han detto vuoi far credere al tuo stratego.»
Il Presbiter era contrariato.
«Non voglio che il mio regno diventi come il vostro, una macchina da guerra. Io voglio un regno di pace.»
«Si vis pacem para bellum[1]. Per mantenere la pace è necessaria la sicurezza. Se vuoi il mio consiglio, richiama altri alle armi, e sposta i soldati che hai da dove il confine è più sicuro. A ovest c’è il fiume e poi il deserto; a sud il mare e infiltrazioni arabe; a ovest l’Indo, a nord popolazioni nomadi e a nord-est i Cinesi: non dovrebbe essere difficile scegliere da dove togliere effettivi.»
Fabio, a questo punto, si alzò dallo scanno su cui aveva seduto fino ad allora e si diresse verso la porta, ma Johannes lo fermò.
«Mi è arrivato oggi un messo che mi ha riferito di una novità a Bisanzio: il Patriarca Panatto è stato deposto da un Sinodo clandestino ed è un’altra volta sparito.»
Il re–sacerdote era sinceramente preoccupato, perché era stato ordinato dal Patriarca e lo stesso Patriarca gli aveva affidato la missione di fondare il regno cristiano che ora reggeva.
«Non preoccuparti. Non è impossibile che torni da te. Conosce il luogo dove ci troviamo e sa che qui troverebbe aiuto»
Dicendo queste parole Fabio si accomiatò dal giovane sovrano, che non si era tranquillizzato per le sue parole.
Immanuel Calais attendeva fuori dello studio.
«Allora?»
«Niente spedizione in Cina, ma gli ho consigliato di aumentare il numero dei soldati. Staremo a vedere. A che punto è la costituzione di quel corpo speciale di cui mi dicevi?»
«Quasi ho finito. Vuole comandarlo lei?»
«No. Ma forse ce ne sarà bisogno.»
Lasciando così lo stratego, Fabio uscì dal palazzo e tornò al santuario. La notte era scura, anche le luci del palazzo erano spente.
Solo ardeva il fuoco nel pronao del tempio. La statua nella nicchia balenava a sprazzi.
* A Nova Magna, nel regno del Presbiter Johannes
[1] «Se vuoi la pace prepara la guerra»

Capitolo I - Rex et sacerdos

I. Subiaci, in Romano ducatu*
La trascrizione degli scritti di Sant’Agostino procedeva alacre nel vasto scriptorium; dall’esterno giungevano i suoni della campagna, il silenzio dell’interno era accompagnato dal rumore delle penne che grattavano la pergamena. Il monaco lavorava chino sul suo bancone, gettando di tanto in tanto uno sguardo al testo che stava copiando.
Era la traduzione in latino di un antico testo orientale, portata da un chierico di Roma pochi giorni prima con l’ingiunzione di farne una copia il più velocemente possibile e senza miniature né fronzoli. Il giovane monaco copiava senza pensare, nonostante alcune parole che scriveva non avessero per lui alcun senso: Avesta, Ahura, Veda…
Quando ebbe finito, ripulì la penna dall’inchiostro e si alzò dal duro seggio. Portando il manoscritto e l’originale all’abate, che si trovava dalla parte opposta del monastero, e osservando i colori della natura in autunno, il giovane provò nostalgia per il mondo, che aveva deciso di lasciare prima di entrare nell’ordine benedettino.
Il desiderio di vedere e conoscere il resto dei mille ambienti e panorami del creato lo prese e gli fece rimpiangere, per un attimo, la vita secolare.
Entrato nella sala del capitolo, questo e mille altri pensieri svanirono.
Ad attenderlo, in piedi accanto alla parete, c’era un prelato. Il monaco gli cercò un anello al dito da baciare, ma non lo trovò.
«Puoi consegnarmi l’originale, ma tieni la copia. Sei dom Iorges, dico bene?»
Il prelato, rivelando accento greco, gli aveva rivolto la parola quasi senza muovere le labbra.
«Sì, padre. Perché volete che tenga la copia che mi è stato ordinato di fare?»
«Ho chiesto all’abate di poter prendere con me un bravo giovane per un importante compito, richiesto dal Santo Padre in persona.»
Il giovane, Iorges, si trovò a muovere un’obiezione.
«Ma uscire dall’abbazia equivale ad infrangere la Regola…»
«Sono cardinale diacono, e la missione è di fondamentale importanza per il Papato. Il Santo Padre Vitaliano ha fatto affidamento su di noi.»
Iorges sentì nella frase qualcosa di stonato, ed obiettò una seconda volta: «I Cardinali diaconi, che io sappia, sono sette, sono romani e non parlano con accento greco. Voi chi siete?»
«Sono cardinal ΡαεFώθζ, l’ottavo cardinale diacono, presidente del Pontificio Consiglio per la diplomazia. Abbiamo una missione d’importanza fondamentale. E, tra l’altro, se rifiuti dovremo isolarti in qualche eremo, perché hai avuto modo di leggere il manoscritto.»
Non fu difficile per Iorges decidersi; doveva scegliere tra il partire per una missione lontano dal monastero o il ritirarsi, da solo, in vetta a qualche montagna. Chinando il capo, ma solo per nascondere gli occhi che urlavano entusiasmo, rispose:
«Eminenza, vengo con voi…»
Il cardinal ΡαεFώθζ lo condusse alla foresteria, dove li aspettavano due muli. I due uscirono dalle mura senza che alcuno parlasse con loro e senza parlare con nessuno. Iorges, lasciandosi alle spalle la mole del monastero, in cui aveva vissuto per alcuni anni senza alcun contatto con il mondo esterno, era contento per aver esaudito il suo desiderio, ma anche un po’ intimorito dal suo compagno di viaggio. Il cardinale, intanto, lo precedeva in silenzio sulla stretta mulattiera che scendeva attraverso i campi coltivati dai coloni del monastero.
Il sentiero, facendo un’ampia curva, spariva dietro una scarpata. Appena sparito dalla vista il complesso d’edifici, sul sentiero aspettavano due cavalli. Il cardinal ΡαεFώθζ ordinò a Iorges di fermarsi e scendere dal mulo.
«A cavallo si procede più velocemente.», spiegò, e salì con un balzo in sella al destriero, nonostante fosse d’età più avanzata rispetto a Iorges che, invece, arrancò non poco per montare in sella. Quando fu riuscito nel suo intento, Iorges notò il Cardinale che ricopriva la sua lunga veste scarlatta con un manto nero come la notte e imbracciava una scimitarra già seriamente provata nel corso di tante battaglie.
«È meglio essere armati», aggiunse.
E ordinò: «Copriti il capo con il mantello. Non vogliamo farci riconoscere»
Dopo che Iorges ebbe obbedito a ΡαεFώθζ, questi spronò il cavallo attraverso i campi, seguito dal giovane monaco.
Dovendosi recare fuori dell’Italia, a Iorges sembrò normale dover raggiungere un porto, nella fattispecie Anzio o Civitavecchia, che si trovavano a poche ore di cavalcata dal luogo dove si trovavano. Il Cardinale, invece, si diresse verso le cime dell’Appennino. Oltrepassato un agevole valico a pomeriggio inoltrato e discesi fino al mare Adriatico, i due religiosi giunsero ad un’isolata caletta, al centro della quale era ormeggiata un’imbarcazione battente insegne saracene. Sulla spiaggia era stata tirata in secca una scialuppa ed un manipolo di marinai si scaldava intorno ad un fuoco stentato. Era già scesa la sera e, salvo i fuochi che illuminavano la scena, l’aria era buia. Mentre scendeva da cavallo, il Cardinale rivolse la parola a Iorges per la prima volta dopo la loro partenza dal monastero:
«A dispetto dell’impressione, siamo ancora abbastanza lontani dal mare, e non ci imbarcheremmo comunque prima di domattina. Sistemiamoci qui per la notte.»
Iorges era però in allarme per la presenza della nave mussulmana.
«Eminenza, non volete che io vada nei villaggi ad avvisare della presenza di quei pirati? Potremmo salvare molte vite, se riuscissimo a dare l’allarme in tempo!».
Il Cardinale sorrise.
«La nave non appartiene a pirati saraceni. È stata portata qui dal porto di Ravenna per permetterci di giungere in Terra Santa in incognito, se riusciremo ad evitare la flotta di Bisanzio, e per farlo seguiremo una rotta in alto mare. E, in quanto a te, pensa solo a salvare il manoscritto che porti, dom Iorges.»L’indomani il battello lasciò la costa italiana diretto a Damasco.
* A Subiaco, nel ducato di Roma

sabato 13 ottobre 2007

Προλόγος - Rex et sacerdos

Προλόγος*
Il lento incedere dei passi lasciava orme effimere nel sottile strato di sabbia che ricopriva la pianura. Le alte sagome dei monti chiudevano l’orizzonte da tre lati, mentre il fresco gorgogliare di una sorgente riempiva l’aria. Il vento sferzava le stoppie e cancellava i segni dei calzari.
L’uomo, aiutandosi con un bastone, camminava in direzione del giovane rivo, dell’appena nato fiume Choaspe. Nonostante fossero passati tanti anni, le ossa ancora biancheggiavano nella pianura, gli stendardi giacevano strappati, ma intatti per la mancanza di umidità che li aveva conservati come vent’anni prima. Le armi dei caduti si ricoprivano di uno strato di ruggine. Accanto ai resti di due soldati, due spade, ancora macchiate di sangue, rimanevano nascoste dalle sterpaglie. Una delle due spade, però, sembrava non aver subito il passare del tempo. Lucida, benché ci fossero due grosse chiazze di sangue, scintillava come fosse stata appena forgiata. Nell’elsa era incastonata una pietra preziosa tagliata nella forma del monogramma cristiano.
La corazza dell’uomo che l’aveva stretta portava i segni della potestà imperiale bizantina.
Il viandante, dopo averla tersa del sangue coagulato, la sistemò sotto il saio da pellegrino che portava e riprese il suo cammino verso est.
* Prologo

Dedica - Rex et sacerdos



vigilandum est semper: multae insidiae sunt bonis
bisogna sempre vigilare: ci sono molti pericoli per i buoni
(Accii Atreus, fr VIII Dangel)

Nil sine magno
vita labore dedit mortalibus
Niente ai mortali ha dato la vita senza grande travaglio
(Quinti Oratii Flacci, Saturae, I, 9)

Liber II - Rex et sacerdos


Johannis V PP

Rex et sacerdos
In otio

Circiter DCLX post Christum natum

lunedì 8 ottobre 2007

Επιλόγος - Ragnarok

Επιλόγος*
A sera, Quinto Fabio, Panatto Retore ed il suo servo si riunirono con ΡαεFώθζ, che li attendeva al villaggio di Hexàmeron.
Nella valle ardevano due incendi, quello del ninfeo e quello del tempio; tra le fiamme del primo erano stati gettati i cadaveri, perché le fiamme li divorassero.
Il capo dei servizi di sicurezza era andato a cercare il resto dell’armata, ma non l’aveva trovata. I pochissimi superstiti della battaglia si erano ritirati.
«È finita. La sacerdotessa che aveva predetto la fine di un’era non sbagliava.»
Panatto Retore proseguì.
«Un’epoca è finita. Non esiste più nulla che possa provare la genitura della religione cristiana da quelle indoeuropee. Non posso fare altro che tornare da dove sono venuto. Non esiste più Susa, non esiste più Susiana.
I due motivi che mi allontanarono da Bisanzio, le mie ricerche e l’ostilità di Valente e Lilia con il Monofisismo che volevano imporre ai Romani, si sono esauriti o sono venuti a mancare. Tornerò al mio palazzo.»
«Patriarca Ecumenico, Patriarca di Costantinopoli, io non potrò più tornare indietro.», obiettò il suo servo.
«Iohannes, tu non puoi tornare. Dovrai raccogliere i sopravvissuti di Susiana, e condurli oltre l’Oxus. È predetto che sarà fondato un regno cristiano, al di là dei domini arabi.
Oggi è venerdì; venerdì santo. È giusto che il fuoco di Illa Diva oggi sia stato spento. Riaccenderai il Fuoco nuovo nel tuo regno nuovo. Ora io ti ordino sacerdote e ti ungo re, Iohannes.
Presbiter Johannes, rex et sacerdos. I.[1]»
Panatto Retore si mise in viaggio verso Bisanzio.
ΡαεFώθζ decise di non seguire Johannes e Quinto Fabio, che aveva intenzione di recarsi con lui ad oriente.
«Io vado a Roma. Il seggio di Pietro non è legato al trono di Cesare, come avviene a Bisanzio, e sono consapevole che voi, seguaci di Nestorio, siete degli eretici.»
Quinto Fabio, contemplando la statuetta di Illa Diva concluse.
«Io non mi sento di mantenere alcun potere sopra gli uomini, che a migliaia ho condotto alla morte. Johannes, lo rimetto nelle vostre mani. Io mi accontento di questa statua; vi chiedo solo di associarla al culto mariano.»
«Voi bestemmiate. Illa Diva non è Maria; non è Madre di Dio.»
«Neanche Maria. Siamo Nestoriani.»

Il Califfo di Damasco fu informato circa l’esito della battaglia. Tre eserciti distrutti, l’Impero decapitato.
«Oggi è un grande giorno. Il politeismo in Oriente è finito per sempre.»
*Epilogo
[1] «Prete Gianni, re e sacerdote. Va’»

Capitolo XII - Ragnarok

XII. Ragnarok seu Deorum occasus*
L’esercito susiano era preso tra due fuochi; manovrando per respingere l’esercito bizantino si sarebbe scoperto il fianco, da dove stava giungendo l’esercito arabo.
Adriano Re, che, tra l’altro, non aveva una grande esperienza di guerra, prese una decisione che avrebbe limitato le perdite ma che, forse, non avrebbe permesso alle forze del Tema di riuscire a contrattaccare in maniera incisiva.
Sul fianco sud vennero schierati i carri falcati di Cornua.
I Caldei federati, che già in diverse occasioni avevano riportato vittorie sugli eserciti, anche più numerosi, che gli Arabi avevano mandato in Mesopotamia, avrebbero fronteggiato le tribù musulmane.
In linea di battaglia, i carri da guerra attendevano l’ordine della carica. I cavalli e gli uomini fremevano per l’attesa.
Per fronteggiare l’esercito di Bisanzio, meglio armato ed organizzato, Adriano Re decise d’utilizzare la fanteria oplitica contro le rapide cariche della cavalleria, mentre gli elefanti persiani e la cavalleria sarebbero stati utilizzati contro gli uomini appiedati.

L’alba si avvicinava rapidamente.

Appena un raggio di sole superò le cime dei monti che delimitavano la valle, ΡαεFώθζ gridò l’urlo di battaglia dei Servizi di sicurezza. Un centinaio di uomini balzò fuori dalla foresta gettandosi contro l’Illius Ninfeo. Le sentinelle massagete, che avevano passato la notte con le sacerdotesse, furono colte di sorpresa dal primo impeto dei Susiani e vennero sopraffatte. La battaglia si portò all’interno dell’edificio. Svegliati dal rumore della battaglia, altri barbari scendevano dalle stanze per gettarsi contro gli assalitori.
Panatto Retore ed il suo servo si tenevano, per precauzione, all’esterno del ninfeo, ma presto dovettero entrare perché i Massageti presero a lanciare dalle finestre tutto quello che potevano, tentando di colpire e rallentare i soldati che irrompevano nella costruzione. Intanto, ΡαεFώθζ ed Αρσωΐν si aprivano la strada mietendo vittime, mentre Quinto Fabio cercava in ogni stanza la gran sacerdotessa. Ella, infatti, avrebbe dovuto custodire il libro che Panatto andava cercando. I Massageti non erano molti, né molto abili, e presto furono confinati in un salone, dove si trovava anche la sacerdotessa con il libro.
Mentre ΡαεFώθζ faceva abbattere la porta e i soldati incominciavano ad entrare combattendo nella sala, Quinto Fabio s’avvide che un paio di Massageti erano riusciti ad uscire e si stavano dirigendo, nel bosco, verso il Tempio di Illa Diva.
Si gettò a capofitto per la scala elicoidale che circondava l’atrio del ninfeo buttandosi al loro inseguimento.
Αρσωΐν aveva mietuto molte vittime quella mattina, e la stanchezza cominciava ad annebbiargli i sensi ubriachi di sangue; perciò non s’avvide che, mentre trapassava con un colpo solo il torace tatuato di Ierolma, da dietro le sue spalle si avvicinava Currus, il quale gli conficcò un pugnale nel collo.
ΡαεFώθζ, accortosi che il compagno aveva mischiato il proprio sangue con quello del nemico, si gettò contro Currus brandendo la scimitarra. Con un fendente al collo, la testa del capo barbaro cadde.
Con i pochi sopravvissuti, ΡαεFώθζ uscì dal ninfeo, dopo aver raccolto il libro.
Le sacerdotesse, che avevano sempre abitato il ninfeo, sembravano assenti. Perlustrando le sale del piano terra, il capo dei servizi di sicurezza trovò un cumulo di cadaveri femminili. I Massageti avevano meritato la fine cruenta che gli era capitata.
Quinto Fabio, intanto, che correva in direzione del tempio, seguito da Panatto Retore ed Abbà, fu fermato da Felix Felis, che era riuscito a sfuggire alla strage perpetrata dai barbari. Questo voleva impedire loro di raggiungere gli altri inseguiti – in tre avevano fuggito la morte –, ma non fece in tempo a parlare, perché cadde ucciso.
Anche il secondo fuggitivo fu raggiunto e definitivamente fermato mentre cercava di prendere una barca per raggiungere l’isola su cui sorgeva il tempio. L’aveva già raggiunta, invece, Lepido Silvano, che cercava l’estrema difesa tentando di penetrare nel santuario. Per evitare che fosse violato da un barbaro, per giunta traditore e spergiuro, ma questo non poteva saperlo, Quinto Fabio lanciò, con tutta la forza che aveva, il giavellotto contro la curva figura di Lepido. La punta di ferro, dopo aver compiuto una lunga parabola, entrò nel centro della schiena del fuggitivo, che si schiantò al suolo con un rantolo.

Quando il sole era stato abbastanza alto da permettere la vista sul campo di battaglia, Adriano Re aveva ordinato di iniziare le operazioni.
I carri falcati di Cornua si lanciarono contro la fila di cammelli arabi, che furono completamente colti di sorpresa da quell’improvviso attacco. I cammellieri cercarono di scompaginare il proprio schieramento, per impegnare maggiormente l’avversario, ma furono quasi tutti sbalzati a terra per la caduta delle proprie cavalcature. In pochissimo tempo, la seconda ondata di carri aveva finito anche chi era rimasto a terra. Cornua, in segno di vittoria, finì personalmente il comandante degli Arabi, per poi far girare i carri e dirigerli contro l’alto esercito.
Intanto, la fanteria bizantina aveva lanciato il proprio attacco. Si era lanciata, a sorpresa, contro gli opliti susiani.
L’impossibilità di manovrare sotto la pioggia di frecce e giavellotti, costrinse il comandante della fanteria, Rots, ad ordinare un’avanzata, incurante delle perdite.
Gli elefanti persiani si muovevano troppo lentamente e non riuscivano ad intervenire; Cosroe, colpito da una freccia bizantina, era caduto, ed il suo secondo combatteva cercando di ridurre al minimo le perdite; i sintagmi andavano sempre più assottigliandosi, mentre si stava avvicinando agli elefanti la cavalleria di Bisanzio.
Valente II e Lilia Domna, nell’accampamento, già stavano disponendo di attaccare la valle di Illa Diva, quando Adriano Re, nel tentativo di risollevare le sorti della battaglia, già fortemente compromesse, con una carica andò ad accerchiare la fanteria avversaria, condannandola a venire eliminata dall’avanzare degli opliti.
Rots, alla testa del suo sintagma scelto, guidava l’avanzata che si faceva inarrestabile; ma fu colpito ad un occhio da una freccia infida, che lo fece cadere nella polvere. L’avanzata perdeva il proprio vigore, mentre già gli elefanti battevano in ritirata. Un’ultima carica di cavalleria, guidata da Adriano in persona, arrivò fino al campo imperiale, dove trovò schierata la guardia bulgara.
Il violento scontro rimase a lungo incerto, mentre Adriano, da solo, riusciva a penetrare nel campo nemico.
La prima persona che gli venne incontro fu Lilia Domna.
Adriano Re, con la sua lunga spada, la passò da parte a parte.
L’imperatore Valente II uscì dalla propria tenda sfidando a duello Adriano. Le sorti della battaglia e l’onore della carica di basileus lo imponevano
Mentre la guardia bulgara metteva in fuga la cavalleria susiana, che ripiombava sulle retrovie bizantine, Adriano e Valente si scontrarono. Andato a vuoto il lancio dei giavellotti, erano già giunti al corpo a corpo. Le corregge che reggevano la corazza anatomica di Valente furono recise, mentre Adriano fu ferito profondamente alla spalla sinistra, perdendo lo scudo.
Approfittando del momentaneo smarrimento dell’avversario, Valente gli menò un fendente letale. Adriano cadde, sputando sangue.
Con un ultimo sovraumano sforzo, protese il braccio e la spada in direzione di Valente, esausto ma distratto dalla vittoria, colpendolo dove non era coperto dalla lorica.
Cadde addosso ad Adriano; i due perirono più uniti di quanto non avessero mai vissuto.

Il ritorno dei carri di Cornua fu notevolmente favorevole ai Susiani. I cavalli di Cornua, lanciati nell’ennesima carica, incespicarono in una buca sbalzando fuori il conducente. Quello che lo seguiva non se ne avvide subito, e quando lo fece era troppo tardi.

Nella valle di Illa Diva, Quinto Fabio stava per entrare nel tempio, insieme ad Abbà e a Panatto Retore.
La luce, che entrava da una finestra sul fondo del tempio, andava a cadere su un piccolo loculo.
In quel loculo c’era una piccola statuetta, raffigurante una figura femminile dall’indicibile grazia, davanti alla quale arrancava moribondo il fuoco sacro. I capelli cerchiavano un volto sottile e pieno di grazia, il corpo, scolpito a tutto tondo in alabastro, aveva la celestiale armonia delle statue greche; Quinto Fabio ne fu ammaliato. Mentre Panatto esaminava i testi in sanscrito che erano accumulati in un angolo, Abbà iniziò a raccogliere i molti ex-voto e oggetti votivi preziosi che erano accumulati nel retro.
Quindi uscirono, Quinto Fabio in contemplazione della statuetta, che aveva asportato, Panatto Retore ed il suo servo dei testi, Abbà degli ori del tesoro del tempio.
Mentre i primi si allontanarono velocemente, insieme ai superstiti dei servizi di sicurezza, Abbà appiccò fuoco al tempio. Poi sparì, confondendosi con un lampo di luce, prima che i tre riuscissero a fermarlo. Poi si allontanarono, mentre Panatto piangeva la perdita di tanta arte e cultura.
«Quando avrò finito di tradurre i testi, sapremo certo di più, ma abbiamo perso un patrimonio per l’universa umanità.»
Durante gli scontri, anche il ninfeo aveva preso fuoco. Non sarebbe rimasto nemmeno il ricordo di quella valle, fuori di essa.
* Ragnarok o Il crepuscolo degli dei

Capitolo XI - Ragnarok

XI. In Illius Divae valle*
La partenza dei Servizi di Sicurezza avvenne di notte. Nessun rumore proveniva dalla gola che iniziarono a percorrere. La rigogliosa vegetazione che ne copriva le ripide pareti, con l’oscurità, prendeva forme grottesche e mostruose. Ogni cespuglio ed ogni albero potevano nascondere insidie da parte dei barbari; i soldati n’erano consci. Gli unici a non essere preoccupati per i nemici erano Panatto Retore e il suo servo; la prima missione di guerra cui prendevano parte sembrava loro noiosa, almeno fino a quel momento. L’unica causa dell’agitazione che li prendeva era l’attesa prima di raggiungere i luoghi consacrati al culto di Illa Diva, il tempio e il ninfeo sede del collegio sacerdotale.
Quinto Fabio teneva la mano sull’elsa della spada.
La colonna stava ancora percorrendo la gola quando, da una posizione sovrastante, s’udì il rumore di qualcosa che stava rovinando loro addosso. ΡαεFώθζ urlò di togliersi dal sentiero, ma Αρσωΐν gli corse accanto facendogli notare che non esisteva nulla fuori del sentiero. Un oggetto di medie dimensioni piombò sulla strada. Αρσωΐν gli puntò contro la scimitarra, ma il corpo si rivelò essere quello di Hexàmeron.
Spaventatissimo e lacero, si gettò ai suoi piedi implorando aiuto.
Quando si fu calmato un poco, gli venne chiesto cosa fosse successo nella valle dopo l’arrivo dei Massageti.
Iniziò a raccontare singhiozzando.
«Una sera, la gran sacerdotessa si era portata all’esterno della valle, donde si vede la pianura circostante. I barbari accampati lì vicino l’hanno scorta e catturata. Hanno preso l’Illius Ninfeo, facendo prigioniere tutte le sacerdotesse, ed anche il ferito. Noi servi abbiamo subito molte ingiustizie, ci sono stati sottratti i nostri raccolti e sono state rapite le nostre donne. Quando da Abbà ho sentito che si stavano avvicinando i soldati che già erano stati qui, sono subito corso loro – cioè voi – incontro ma, per la troppa foga, sono caduto…Aiutateci, venite al nostro villaggio!»
Il nome che Hexàmeron aveva pronunciato era sconosciuto ai soldati, mentre a Panatto Retore sembrava già noto.
In risposta all’accorato appello, e anche per soddisfare la curiosità del dignitario, gli uomini seguirono il giovane lungo uno stretto sentiero, il cui imbocco era stato occultato, che portava ad un piccolo altopiano sospeso sulla conca in cui si trovava il tempio di Illa Diva.
Circondato da magre ortaglie, una corte di casupole era stretta attorno ad un fuoco stentato. Quinto Fabio e Panatto Retore furono introdotti nella capanna più grande, dove si trovava Abbà.
Gli occhi seri e pensosi di quest’uomo e la sua corta barba di tipo persiano si stagliavano su un volto che mostrava un’indefinibile mezza età. Portava brache di pelle, strette sotto il ginocchio, e si era gettato con noncuranza una casacca da pastore sulle spalle. In mano stringeva un frustino da cavallo, accessorio insolito per un pastore, tanto più che, avvicinandosi al villaggio, i soldati non avevano visto animali atti ad essere montati.
Si notava che il personaggio non aveva mai vissuto tra quei poveri coloni, ma era arrivato nel villaggio da poco, e pareva fosse informato di quanto succedeva – almeno, era informato del loro arrivo. Quinto Fabio, anche per evitare che gli sfuggissero informazioni, prese ad interrogarlo.
«Siete un Massageta?»
Quello rispose parlando con un fluente dialetto persiano
«No, signore. Sono uno straniero giunto qui per caso.»
«Come facevate a sapere che saremmo arrivati?»
«Avete troppo a cuore il santuario di Illa Diva per lasciarlo nelle mani di questi barbari, senza cultura né storia.»
«Siete dunque venuto per il santuario? Strano significato attribuite alle parole “per caso”. Che mi dite?»
«Usciamo, per favore.»
Il vecchio portò Quinto Fabio e Panatto Retore fino al bordo dell’altopiano, mostrando loro la valle con, al centro, il tempio di Illa Diva. Solo un tenue chiarore usciva dalla porta dell’edificio sacro. Il fuoco si stava spegnendo.
«È scritto che quando il fuoco della Diva si spegnerà, allora non ci saranno più speranze per i figli di Iafet, o se preferite gli indoeuropei, in Persia. Sento che ci stiamo avvicinando alla fine.»
Il canto dell’upupa risuonò lugubre.
«Dovremmo tentare il tutto per tutto; introdurci nel tempio per cercare di salvare i resti di millenni di culto.»
Dall’alto, l’Illius Ninfeo suonava dei canti sgraziati dei Massageti.
Quinto Fabio andò da ΡαεFώθζ, dandogli ordine di scendere a valle entro l’alba del giorno dopo.
La colonna si mise, lentamente, in marcia. Il terreno franava sotto gli zoccoli cavi dei cammelli, il rumore delle armi veniva attutito con stoffe, per evitare di essere scoperti dai nemici.
Guidati da Hexàmeron e accompagnati da Abbà, i soldati raggiunsero il bosco che circondava l’Illius Ninfeo un’ora prima dell’alba.
Si era deciso, dopo una lunga discussione tra gli ufficiali ed Abbà, durata per tutto il cammino notturno, che i soldati avrebbero attaccato prima il Ninfeo cercando di sopraffare i Massageti; in seguito, Panatto Retore, Quinto Fabio ed Abbà sarebbero entrati nel santuario per cercare la risposta agli interrogativi del dignitario e le ricchezze accumulatesi nei secoli.

All’esterno della valle, un uomo a cavallo si precipitò nella tenda di Adriano Re, che aveva assunto il comando dopo la partenza dello Stratego. Era stato avvistato, proveniente da sud–est, l’esercito degli arabi. Era formato dagli uomini di quattro tribù, montati su cammelli e armati con arco e scimitarra. Un esercito di armati, grande dieci volte i Servizi di Sicurezza di Susiana. Al suo comando c’era El Q̉ hrą, che già aveva guidato la missione diplomatica araba a Bisanzio.
Adriano Re, svegliatosi e benedicendo ΡαεFώθζ per il suo presentimento, si preparava a far schierare l’esercito per respingere gli Arabi, che avevano evitato la capitale Susa per dirigersi direttamente alla sorgente del Choaspe, dove avevano saputo essersi fermato l’esercito del Tema.

Pochi minuti dopo, un altro esploratore arrivò, terreo in volto.
Al contrario del primo, che aveva stimato non molto preoccupante l’armata araba, questo si era trovato davanti un esercito numerosissimo. Non tanto quanto quello susino, ma capace di impegnarlo acerrimamente. Inoltre, il monogramma cristiano caricato sugli scudi e i gonfaloni aveva avuto il potere di terrorizzare il soldato, consapevole che il Tema per cui combatteva era nemico del più grande impero della terra.

L’esercito dell’Impero Bizantino, guidato dall’imperatore in persona, accompagnato come sempre da Lilia Domna, si era portato, per un apparente caso, dietro al massiccio montuoso che proteggeva il santuario. Di là, subito era stato scorto il campo susiano, e l’esercito si stava schierando in ordine di battaglia per il mattino dopo.
* Nella valle di Illa Diva