lunedì 8 ottobre 2007

Capitolo XII - Ragnarok

XII. Ragnarok seu Deorum occasus*
L’esercito susiano era preso tra due fuochi; manovrando per respingere l’esercito bizantino si sarebbe scoperto il fianco, da dove stava giungendo l’esercito arabo.
Adriano Re, che, tra l’altro, non aveva una grande esperienza di guerra, prese una decisione che avrebbe limitato le perdite ma che, forse, non avrebbe permesso alle forze del Tema di riuscire a contrattaccare in maniera incisiva.
Sul fianco sud vennero schierati i carri falcati di Cornua.
I Caldei federati, che già in diverse occasioni avevano riportato vittorie sugli eserciti, anche più numerosi, che gli Arabi avevano mandato in Mesopotamia, avrebbero fronteggiato le tribù musulmane.
In linea di battaglia, i carri da guerra attendevano l’ordine della carica. I cavalli e gli uomini fremevano per l’attesa.
Per fronteggiare l’esercito di Bisanzio, meglio armato ed organizzato, Adriano Re decise d’utilizzare la fanteria oplitica contro le rapide cariche della cavalleria, mentre gli elefanti persiani e la cavalleria sarebbero stati utilizzati contro gli uomini appiedati.

L’alba si avvicinava rapidamente.

Appena un raggio di sole superò le cime dei monti che delimitavano la valle, ΡαεFώθζ gridò l’urlo di battaglia dei Servizi di sicurezza. Un centinaio di uomini balzò fuori dalla foresta gettandosi contro l’Illius Ninfeo. Le sentinelle massagete, che avevano passato la notte con le sacerdotesse, furono colte di sorpresa dal primo impeto dei Susiani e vennero sopraffatte. La battaglia si portò all’interno dell’edificio. Svegliati dal rumore della battaglia, altri barbari scendevano dalle stanze per gettarsi contro gli assalitori.
Panatto Retore ed il suo servo si tenevano, per precauzione, all’esterno del ninfeo, ma presto dovettero entrare perché i Massageti presero a lanciare dalle finestre tutto quello che potevano, tentando di colpire e rallentare i soldati che irrompevano nella costruzione. Intanto, ΡαεFώθζ ed Αρσωΐν si aprivano la strada mietendo vittime, mentre Quinto Fabio cercava in ogni stanza la gran sacerdotessa. Ella, infatti, avrebbe dovuto custodire il libro che Panatto andava cercando. I Massageti non erano molti, né molto abili, e presto furono confinati in un salone, dove si trovava anche la sacerdotessa con il libro.
Mentre ΡαεFώθζ faceva abbattere la porta e i soldati incominciavano ad entrare combattendo nella sala, Quinto Fabio s’avvide che un paio di Massageti erano riusciti ad uscire e si stavano dirigendo, nel bosco, verso il Tempio di Illa Diva.
Si gettò a capofitto per la scala elicoidale che circondava l’atrio del ninfeo buttandosi al loro inseguimento.
Αρσωΐν aveva mietuto molte vittime quella mattina, e la stanchezza cominciava ad annebbiargli i sensi ubriachi di sangue; perciò non s’avvide che, mentre trapassava con un colpo solo il torace tatuato di Ierolma, da dietro le sue spalle si avvicinava Currus, il quale gli conficcò un pugnale nel collo.
ΡαεFώθζ, accortosi che il compagno aveva mischiato il proprio sangue con quello del nemico, si gettò contro Currus brandendo la scimitarra. Con un fendente al collo, la testa del capo barbaro cadde.
Con i pochi sopravvissuti, ΡαεFώθζ uscì dal ninfeo, dopo aver raccolto il libro.
Le sacerdotesse, che avevano sempre abitato il ninfeo, sembravano assenti. Perlustrando le sale del piano terra, il capo dei servizi di sicurezza trovò un cumulo di cadaveri femminili. I Massageti avevano meritato la fine cruenta che gli era capitata.
Quinto Fabio, intanto, che correva in direzione del tempio, seguito da Panatto Retore ed Abbà, fu fermato da Felix Felis, che era riuscito a sfuggire alla strage perpetrata dai barbari. Questo voleva impedire loro di raggiungere gli altri inseguiti – in tre avevano fuggito la morte –, ma non fece in tempo a parlare, perché cadde ucciso.
Anche il secondo fuggitivo fu raggiunto e definitivamente fermato mentre cercava di prendere una barca per raggiungere l’isola su cui sorgeva il tempio. L’aveva già raggiunta, invece, Lepido Silvano, che cercava l’estrema difesa tentando di penetrare nel santuario. Per evitare che fosse violato da un barbaro, per giunta traditore e spergiuro, ma questo non poteva saperlo, Quinto Fabio lanciò, con tutta la forza che aveva, il giavellotto contro la curva figura di Lepido. La punta di ferro, dopo aver compiuto una lunga parabola, entrò nel centro della schiena del fuggitivo, che si schiantò al suolo con un rantolo.

Quando il sole era stato abbastanza alto da permettere la vista sul campo di battaglia, Adriano Re aveva ordinato di iniziare le operazioni.
I carri falcati di Cornua si lanciarono contro la fila di cammelli arabi, che furono completamente colti di sorpresa da quell’improvviso attacco. I cammellieri cercarono di scompaginare il proprio schieramento, per impegnare maggiormente l’avversario, ma furono quasi tutti sbalzati a terra per la caduta delle proprie cavalcature. In pochissimo tempo, la seconda ondata di carri aveva finito anche chi era rimasto a terra. Cornua, in segno di vittoria, finì personalmente il comandante degli Arabi, per poi far girare i carri e dirigerli contro l’alto esercito.
Intanto, la fanteria bizantina aveva lanciato il proprio attacco. Si era lanciata, a sorpresa, contro gli opliti susiani.
L’impossibilità di manovrare sotto la pioggia di frecce e giavellotti, costrinse il comandante della fanteria, Rots, ad ordinare un’avanzata, incurante delle perdite.
Gli elefanti persiani si muovevano troppo lentamente e non riuscivano ad intervenire; Cosroe, colpito da una freccia bizantina, era caduto, ed il suo secondo combatteva cercando di ridurre al minimo le perdite; i sintagmi andavano sempre più assottigliandosi, mentre si stava avvicinando agli elefanti la cavalleria di Bisanzio.
Valente II e Lilia Domna, nell’accampamento, già stavano disponendo di attaccare la valle di Illa Diva, quando Adriano Re, nel tentativo di risollevare le sorti della battaglia, già fortemente compromesse, con una carica andò ad accerchiare la fanteria avversaria, condannandola a venire eliminata dall’avanzare degli opliti.
Rots, alla testa del suo sintagma scelto, guidava l’avanzata che si faceva inarrestabile; ma fu colpito ad un occhio da una freccia infida, che lo fece cadere nella polvere. L’avanzata perdeva il proprio vigore, mentre già gli elefanti battevano in ritirata. Un’ultima carica di cavalleria, guidata da Adriano in persona, arrivò fino al campo imperiale, dove trovò schierata la guardia bulgara.
Il violento scontro rimase a lungo incerto, mentre Adriano, da solo, riusciva a penetrare nel campo nemico.
La prima persona che gli venne incontro fu Lilia Domna.
Adriano Re, con la sua lunga spada, la passò da parte a parte.
L’imperatore Valente II uscì dalla propria tenda sfidando a duello Adriano. Le sorti della battaglia e l’onore della carica di basileus lo imponevano
Mentre la guardia bulgara metteva in fuga la cavalleria susiana, che ripiombava sulle retrovie bizantine, Adriano e Valente si scontrarono. Andato a vuoto il lancio dei giavellotti, erano già giunti al corpo a corpo. Le corregge che reggevano la corazza anatomica di Valente furono recise, mentre Adriano fu ferito profondamente alla spalla sinistra, perdendo lo scudo.
Approfittando del momentaneo smarrimento dell’avversario, Valente gli menò un fendente letale. Adriano cadde, sputando sangue.
Con un ultimo sovraumano sforzo, protese il braccio e la spada in direzione di Valente, esausto ma distratto dalla vittoria, colpendolo dove non era coperto dalla lorica.
Cadde addosso ad Adriano; i due perirono più uniti di quanto non avessero mai vissuto.

Il ritorno dei carri di Cornua fu notevolmente favorevole ai Susiani. I cavalli di Cornua, lanciati nell’ennesima carica, incespicarono in una buca sbalzando fuori il conducente. Quello che lo seguiva non se ne avvide subito, e quando lo fece era troppo tardi.

Nella valle di Illa Diva, Quinto Fabio stava per entrare nel tempio, insieme ad Abbà e a Panatto Retore.
La luce, che entrava da una finestra sul fondo del tempio, andava a cadere su un piccolo loculo.
In quel loculo c’era una piccola statuetta, raffigurante una figura femminile dall’indicibile grazia, davanti alla quale arrancava moribondo il fuoco sacro. I capelli cerchiavano un volto sottile e pieno di grazia, il corpo, scolpito a tutto tondo in alabastro, aveva la celestiale armonia delle statue greche; Quinto Fabio ne fu ammaliato. Mentre Panatto esaminava i testi in sanscrito che erano accumulati in un angolo, Abbà iniziò a raccogliere i molti ex-voto e oggetti votivi preziosi che erano accumulati nel retro.
Quindi uscirono, Quinto Fabio in contemplazione della statuetta, che aveva asportato, Panatto Retore ed il suo servo dei testi, Abbà degli ori del tesoro del tempio.
Mentre i primi si allontanarono velocemente, insieme ai superstiti dei servizi di sicurezza, Abbà appiccò fuoco al tempio. Poi sparì, confondendosi con un lampo di luce, prima che i tre riuscissero a fermarlo. Poi si allontanarono, mentre Panatto piangeva la perdita di tanta arte e cultura.
«Quando avrò finito di tradurre i testi, sapremo certo di più, ma abbiamo perso un patrimonio per l’universa umanità.»
Durante gli scontri, anche il ninfeo aveva preso fuoco. Non sarebbe rimasto nemmeno il ricordo di quella valle, fuori di essa.
* Ragnarok o Il crepuscolo degli dei

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