lunedì 29 ottobre 2007

Capitolo III - Rex et sacerdos

III. In duci Demetrii castris, in Langobardiā*
La lunga notte moriva nella grande pianura, le poche tende disposte attorno ai resti di un falò spuntavano appena dalla nebbia lattiginosa che non era ancora salita. Cinque cavalcature erano legate ad una sbarra e sbuffavano vapore dalle nari. Nella sua tenda il dux Demetrius Vonherus vegliava già da quasi un’ora, mentre nelle tende vicine ancora tutti dormivano. In un angolo erano appoggiati una lunga lancia ed uno scudo ricoperto di pelli. Un rotolo di pergamena con il sigillo violato era semidisteso su una tavola di legno, scarabocchiato in un latino imbastardito.
Il dux si alzò dal suo sgabello, il grosso cane levò lo sguardo da terra, gettò un’occhiata distratta al padrone e tornò a dormire; l’uomo uscì dalla tenda, dirigendosi verso il quartiere dei servi, per far riaccendere il fuoco e preparare il desco. Si trovava nello spiazzo principale dell’accampamento, quando dalla nebbia emerse la figura alta e magra di un vegliardo. Demetrius scorse un cerchio di capelli bianchi intorno alla testa, quando il vecchio si scoprì, togliendo il cappuccio della sua caracalla. Nel silenzio, rotto solo dal respiro ritmico dei cavalli, il vecchio fece un cenno al rozzo soldato, indicandogli di sedersi. Poi aprì la bocca, salutandolo. Il barbaro non capiva il greco in cui parlava l’uomo che gli si trovava innanzi, e impugnò la grossa spada a due tagli che portava appesa alla cintola, brandendola minacciosamente verso di lui. L’altro, avendo intuito che il suo interlocutore non lo comprendeva, ripeté il saluto in latino, questa volta compreso.
Il dux Demetrius gli rispose, nonostante il suo latino non fosse paragonabile a quello del vegliardo.
«Buongiorno a te. Chi cerchi?»
«Stavo cercando voi, signore. Vorrei proporvi un’impresa illustre, che vi porterà grande fama presso il vostro popolo, un’impresa in terre lontane che nessun Longobardo ha mai visitato.»
«Io non ti capisco, Romano. Non ti conosco, e tu vieni a casa mia proponendomi di lasciare la mia terra per località ignote.»
Fece cenno ad un servo che si stava avvicinando, mandandolo a prendere la pergamena che si trovava nel suo studio. Quando fu tornato, continuò.
«Vedi questo foglio? Il mio re Bugarico mi ordina di penetrare nel regno dei Gepidi con la mia fara, per raggiungere la loro capitale entro primavera. Non posso seguirti.»
«Voi conoscete la potenza dell’impero romano bizantino, e sapete che non solo vi sovrasta enormemente, ma che anche ostacola il vostro cammino verso la totale conquista della verde Italia. Seguitemi e acquisirete una forza tale da non essere più secondi a nessuno in Europa.»
Gli occhi cerulei del capo barbaro brillavano di avidità.
«Cosa mi chiedi, dunque?»
Sorridendo, giacché si era avveduto che il suo rozzo interlocutore stava cadendo nella rete che aveva teso, il vecchio rispose:
«Venite con me oltre i confini dell’Oriente, ed io vi ricompenserò. È una missione d’importanza fondamentale che il Patriarca Ecumenico di Bisanzio vi vuole affidare.»
«Chi è questo Ecumenico? Non lo conosco.»
«Ora lo conoscete.»
Demetrius non sembrava capire.
«Sono io!», sbottò innervosito il religioso.
Il Longobardo era sul punto di accettare, ma presentò un’ultima obiezione.
«E chi amministrerà la mia fara?»
«So che il più promettente dei vostri nipoti è il giovane Liutprando. Scegliete lui.»
* Nell’accampamento del dux Demetrius, in Langobardia

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