venerdì 19 ottobre 2007

Capitolo I - Rex et sacerdos

I. Subiaci, in Romano ducatu*
La trascrizione degli scritti di Sant’Agostino procedeva alacre nel vasto scriptorium; dall’esterno giungevano i suoni della campagna, il silenzio dell’interno era accompagnato dal rumore delle penne che grattavano la pergamena. Il monaco lavorava chino sul suo bancone, gettando di tanto in tanto uno sguardo al testo che stava copiando.
Era la traduzione in latino di un antico testo orientale, portata da un chierico di Roma pochi giorni prima con l’ingiunzione di farne una copia il più velocemente possibile e senza miniature né fronzoli. Il giovane monaco copiava senza pensare, nonostante alcune parole che scriveva non avessero per lui alcun senso: Avesta, Ahura, Veda…
Quando ebbe finito, ripulì la penna dall’inchiostro e si alzò dal duro seggio. Portando il manoscritto e l’originale all’abate, che si trovava dalla parte opposta del monastero, e osservando i colori della natura in autunno, il giovane provò nostalgia per il mondo, che aveva deciso di lasciare prima di entrare nell’ordine benedettino.
Il desiderio di vedere e conoscere il resto dei mille ambienti e panorami del creato lo prese e gli fece rimpiangere, per un attimo, la vita secolare.
Entrato nella sala del capitolo, questo e mille altri pensieri svanirono.
Ad attenderlo, in piedi accanto alla parete, c’era un prelato. Il monaco gli cercò un anello al dito da baciare, ma non lo trovò.
«Puoi consegnarmi l’originale, ma tieni la copia. Sei dom Iorges, dico bene?»
Il prelato, rivelando accento greco, gli aveva rivolto la parola quasi senza muovere le labbra.
«Sì, padre. Perché volete che tenga la copia che mi è stato ordinato di fare?»
«Ho chiesto all’abate di poter prendere con me un bravo giovane per un importante compito, richiesto dal Santo Padre in persona.»
Il giovane, Iorges, si trovò a muovere un’obiezione.
«Ma uscire dall’abbazia equivale ad infrangere la Regola…»
«Sono cardinale diacono, e la missione è di fondamentale importanza per il Papato. Il Santo Padre Vitaliano ha fatto affidamento su di noi.»
Iorges sentì nella frase qualcosa di stonato, ed obiettò una seconda volta: «I Cardinali diaconi, che io sappia, sono sette, sono romani e non parlano con accento greco. Voi chi siete?»
«Sono cardinal ΡαεFώθζ, l’ottavo cardinale diacono, presidente del Pontificio Consiglio per la diplomazia. Abbiamo una missione d’importanza fondamentale. E, tra l’altro, se rifiuti dovremo isolarti in qualche eremo, perché hai avuto modo di leggere il manoscritto.»
Non fu difficile per Iorges decidersi; doveva scegliere tra il partire per una missione lontano dal monastero o il ritirarsi, da solo, in vetta a qualche montagna. Chinando il capo, ma solo per nascondere gli occhi che urlavano entusiasmo, rispose:
«Eminenza, vengo con voi…»
Il cardinal ΡαεFώθζ lo condusse alla foresteria, dove li aspettavano due muli. I due uscirono dalle mura senza che alcuno parlasse con loro e senza parlare con nessuno. Iorges, lasciandosi alle spalle la mole del monastero, in cui aveva vissuto per alcuni anni senza alcun contatto con il mondo esterno, era contento per aver esaudito il suo desiderio, ma anche un po’ intimorito dal suo compagno di viaggio. Il cardinale, intanto, lo precedeva in silenzio sulla stretta mulattiera che scendeva attraverso i campi coltivati dai coloni del monastero.
Il sentiero, facendo un’ampia curva, spariva dietro una scarpata. Appena sparito dalla vista il complesso d’edifici, sul sentiero aspettavano due cavalli. Il cardinal ΡαεFώθζ ordinò a Iorges di fermarsi e scendere dal mulo.
«A cavallo si procede più velocemente.», spiegò, e salì con un balzo in sella al destriero, nonostante fosse d’età più avanzata rispetto a Iorges che, invece, arrancò non poco per montare in sella. Quando fu riuscito nel suo intento, Iorges notò il Cardinale che ricopriva la sua lunga veste scarlatta con un manto nero come la notte e imbracciava una scimitarra già seriamente provata nel corso di tante battaglie.
«È meglio essere armati», aggiunse.
E ordinò: «Copriti il capo con il mantello. Non vogliamo farci riconoscere»
Dopo che Iorges ebbe obbedito a ΡαεFώθζ, questi spronò il cavallo attraverso i campi, seguito dal giovane monaco.
Dovendosi recare fuori dell’Italia, a Iorges sembrò normale dover raggiungere un porto, nella fattispecie Anzio o Civitavecchia, che si trovavano a poche ore di cavalcata dal luogo dove si trovavano. Il Cardinale, invece, si diresse verso le cime dell’Appennino. Oltrepassato un agevole valico a pomeriggio inoltrato e discesi fino al mare Adriatico, i due religiosi giunsero ad un’isolata caletta, al centro della quale era ormeggiata un’imbarcazione battente insegne saracene. Sulla spiaggia era stata tirata in secca una scialuppa ed un manipolo di marinai si scaldava intorno ad un fuoco stentato. Era già scesa la sera e, salvo i fuochi che illuminavano la scena, l’aria era buia. Mentre scendeva da cavallo, il Cardinale rivolse la parola a Iorges per la prima volta dopo la loro partenza dal monastero:
«A dispetto dell’impressione, siamo ancora abbastanza lontani dal mare, e non ci imbarcheremmo comunque prima di domattina. Sistemiamoci qui per la notte.»
Iorges era però in allarme per la presenza della nave mussulmana.
«Eminenza, non volete che io vada nei villaggi ad avvisare della presenza di quei pirati? Potremmo salvare molte vite, se riuscissimo a dare l’allarme in tempo!».
Il Cardinale sorrise.
«La nave non appartiene a pirati saraceni. È stata portata qui dal porto di Ravenna per permetterci di giungere in Terra Santa in incognito, se riusciremo ad evitare la flotta di Bisanzio, e per farlo seguiremo una rotta in alto mare. E, in quanto a te, pensa solo a salvare il manoscritto che porti, dom Iorges.»L’indomani il battello lasciò la costa italiana diretto a Damasco.
* A Subiaco, nel ducato di Roma

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